(COMPLETA) Il seguito de "La Principessa e la cocotte" (è consigliato, ma non obbligatoria la lettura del primo volume)
1939. Viola sta per coronare finalmente il suo sogno d'amore con Albert. Le cose però non si riveleranno semplici. Venti di guerr...
Una sera mi fermai in biblioteca. Avevo intenzione di scegliere un libro da leggere, qualcosa che mi rilassasse. Albert aveva diversi libri in italiano, tutti raccolti nella zona vicino alla finestra. L'anta era socchiusa e un vento leggero entrava, accarezzandomi i capelli. Fu allora che scorsi qualcosa con la coda l'occhio.
Un pezzo di carta nera volò giù dal davanzale. Ci misi un attimo a comprendere che non era carta. No, era qualcosa di piccolo e leggermente peloso. Mi avvicinai, sollevando leggermente la gonna. Era un esserino con due piccole alluce, dentini appuntiti, una lingua rosa. Un pipistrello, compresi. Rimasi immobile, non sapendo cosa fare. Mia madre mi metteva sempre in guardia. Diceva che potevano attaccare delle terribili malattie. Eppure quella creatura sembrava così fragile che... presi la decisione in un attimo. Uscii e andai a bussare alla stanza di Herman. Lui mi aprì dopo poco, i capelli spettinati, la sorpresa disegnata sul volto. Non indossava la divisa, ma una camicia e un paio di pantaloni. Mi ritrovai a pensare che fosse affascinante anche così. L'immagine di Herman fermo sulla soglia, un po' scapigliato, l'avrei trattenuta nella mia mente con simpatia.
-Scusa se ti disturbo- esordii e mi sentii subito in imbarazzo. Forse avrei dovuto arrangiarmi da sola. Sì, avrei dovuto fare da sola, avrei dovuto...
-Nessun disturbo... non stai bene?- domandò, appoggiandosi allo stipite della porta.
-Oh no, non è per me-
-Julien?- tentò, quasi curioso.
-No, nemmeno lui... ehm, si tratta di un pipistrello- ammisi, con un po' d'imbarazzo.
-Un pipistrello?- non nascose il tono divertito.
-Sì, è ferito e... scusa, lascia perdere, sono... -
-Andiamo a vedere cosa si può fare- uscì dalla stanza.
Ne fui sorpresa, ma lo guidai fino a dove si trovava il pipistrello ferito. Herman si chinò, lo prese in mano e lo portò fino alla scrivania. Era attento, premuroso, così diverso dal soldato che vedevo agire abitualmente.
-Credo che abbia un'ala ferita- disse.
-Si può fare qualcosa?-
-Sì, penso di sì-
L'osservai muoversi attento. Sapeva esattamente cosa fare. Non era solo bravo, no, era perfetto. Il cuore perse i battiti. Bastarono alcuni minuti e l'ala fu sistemata. Il pipistrellino si muoveva debolmente tra le sue mani.
-Non possiamo liberarlo subito- mi spiegò Herman.
-Ce ne prenderemo cura- decisi.
-Beh, non posso proprio contraddirti- rispose ironico.
Il piccolo pipistrello divenne quasi un filo che ci unì. Perfino Julien fu coinvolto in quel nostro gioco. Era divertente prendersi cura di lui.
-Lo potrò tenere per sempre?- mi chiese un giorno.
Fu Herman a intervenire. Gli fece un lungo discorso riguardo a come certe cose devono necessariamente prendere una certa strada.
-Ma lui è mio- borbottò Julien, accarezzando il corpicino del pipistrello.
-Non possiamo dire di un essere vivente che è nostro- spiegò Herman con calma.
Lo ascoltai. Era bello sentirlo parlare in quel modo. Era calmo, paziente, dolce. Perfetto. Fu proprio lui a convincere Julien che il pipistrello doveva essere liberato, cosa che successe una notte. L'osservammo lanciarsi contro il cielo stellato. Ho ancora impressa nella memoria quell'immagine e l'assurda sensazione che io, Julien ed Herman fossimo una famiglia.
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Un pomeriggio ventoso Lotte si presentò alla porta di casa. Come avesse saputo dove mi trovavo, beh, non me lo chiesi neppure. Lei sapeva sempre tutto. Mi sorprese invece l'uomo che stava al suo fianco. Il padre di Albert. Abraham. Indietreggiai, confusa. Cosa stava succedendo? Lotte era appoggiata al suo braccio, l'espressione scioccamente felice, i capelli neri che le ricadevano sulle spalle e che la facevano sembrare stranamente irreale. Mi resi conto che non era una parrucca. No, si era tinta esattamente come avevo fatto io. Non era Lotte, mi ritrovai a pensare. E subito mi venne in mente che neppure io ero io. I capelli biondi mi rendevano irreale come quelli neri rendevano irreale Lotte? Non lo sapevo, forse non volevo neppure saperlo. Mia cugina lasciò il padre di Abraham per corrermi incontro, buttarmi le braccia al collo e sussurrarmi all'orecchio quanto era felice di essere lì. Mi raccontò di come lei e Abraham fossero molto uniti.
Compresi con orrore che i nostri ruoli si erano invertiti. Lei era diventata la brava moglie –pur non essendo sposata-, io invece ero la ribelle, colei che non si sentiva al suo posto, che voleva trasgredire, che voleva qualcosa di nuovo.
-Abraham dovrà allontanarsi per qualche giorno- mi comunicò con tristezza. Io ne fui invece lieta. Non sopportavo la sua presenza.
Mi ritrovai ad attendere con ansia la presentazione di Herman. Ero certa che sarebbe successo ciò che succedeva sempre, inevitabile come lo scorrere delle stagioni. Herman sarebbe avvampato davanti a Lotte. Oppure avrebbe iniziato a parlare troppo per impressionarla. O ancora le avrebbe fatto qualche avance, che lei avrebbe accettato felice. La tregua era finita. La vecchia lotta stava per ricominciare e io avrei perso. Era inevitabile.
Successe invece l'impossibile. Herman ignorò Lotte. Nessun uomo l'aveva mai ignorata. Neppure Albert, che sebbene sostenesse di non sopportarla, la guardava ed era padre di suo figlio. Nemmeno Louis, seppur intellettuale, che avvampava in sua presenza come un ragazzino. Lotte provocava mille diverse emozioni negli uomini, ma mai l'indifferenza. Herman si limitò a un leggero cenno del capo, prima di tornare a me, prima di fissarmi con quegli occhi grigi che mi capovolgevano l'anima.
Mia cugina aggrottò la fronte, rese gli occhi simili a fessure e tentò un paio di approcci. Parlò del tempo, di Berlino, perfino della guerra, lei che detestava tutte le cose serie. Ora che era stata una gran ballerina, ora che si considerava la nuova Mata Hari non poteva proprio accettare di essere snobbata in quel modo. Herman fu cortese, ma gelido.
-Non mi piace- disse semplicemente Lotte quando fummo sole, diretta come sempre.
-Perché non ti guarda- replicai.
-Non è questo- ribadì lei, tormentandosi i lembi dell'abito.
-Sì invece- avevo finalmente il coraggio di contrastarla.
-Comunque è pure brutto-
La volpe che non arriva all'uva. Mi limitai a sorridere e a scrollare il capo. Avevo avuto la mia piccola vittoria. Andava bene così.
Nei giorni seguenti Lotte divenne insopportabile. Sempre presente, non mi lasciava mai sola con Herman. Ogni occasione era ideale per cercare di sedurlo, per farsi notare, per mostrarsi migliore di me. Herman continuava a essere indifferente. Le rispondeva appena, gelido. Lotte non se ne dava pace. E io ero felice di questo.