XIII. ESTRANEA

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Dopo la partenza di Albert le giornate si trascinavano simili. La mattina scendevo a fare colazione e trovavo sempre Herman, un giornale aperto davanti, lo sguardo assorto. Un mucchio di lettere di fronte a lui. Era già andato a prendere la posta, in cui trovavo sempre una missiva di Albert, che leggevo con calma, in camera mia.

Herman s'informava, calmo, quasi gelido, sul mio stato di salute e su miei eventuali bisogni. Mi faceva compagnia durante la colazione, ogni tanto mi traduceva qualche brano del giornale che trovava interessante, mai notizie di guerra, sempre qualcosa di allegro.

Ci rivedevamo a cena. Lui era ogni volta puntuale, impeccabile, la divisa perfetta. Mi chiedeva se avevo una lettera per Albert, che si sarebbe premurato di imbucare la mattina seguente. Parlavamo di molte cose. Ci congedavamo verso le dieci.

Quando scendeva al villaggio mi chiedeva se volevo accompagnarlo. Sospettavo che fosse stata un'idea di Albert, un modo per farmi distrarre. Io accettavo, bisognosa di stare con qualcuno che parlasse in italiano. Veniva anche Julien. Ci sedevamo sul retro di una grande auto, insieme a Herman. L'autista, un uomo silenzioso, dai capelli brizzolati, aveva una guida sicura. Julien faceva molte domande riguardo al funzionamento dell'automobile. Herman spiegava tutto con calma, quasi un certo divertimento nello sguardo.

Ricordo un pomeriggio in particolare. Eravamo al villaggio e camminavamo, fianco a fianco. Julien correva davanti a noi.

-Conosco un lago qua vicino- mi propose Herman, il tono informale visto che era stato proprio Albert a insistere al riguardo –che ne pensi di andare a vederlo?-

La cosa mi sorprese. Non era da Herman fare simili proposte. –Volentieri-

Il lago distava solo una decina di minuti a piedi dal centro del villaggio. Lo guardai, il cuore stretto in una morsa di nostalgia. Era impossibile non pensare a casa.

Ci sdraiammo su una coperta, la schiena appoggiata a un ampio tronco, l'erba che mi sfiorava le caviglie. Era strano essere così vicina a Herman. Con lo sguardo seguivo Julien che giocava di fronte a noi.

-Un bambino vivace- disse Herman.

Io annuii lentamente. –Sì, penso che lo sia ogni bambino a quell'età-

-Non è figlio tuo- dichiarò Herman.

Le parole mi sorpresero. Dove voleva arrivare? –Io... no, non è mio- come potevo raccontargli tutta la storia? Ma forse Albert lo aveva già fatto, in fondo loro due erano amici. No, meglio, Herman per lui era come un fratello.

-Siete molto legati però... non è facile... senza offesa, ma normalmente le matrigne sono crudeli-

-Julien è come un figlio per me- replicai, sentendomi a disagio senza comprenderne il motivo.

Herman non ribadì. Restò a fissare davanti a sé, stranamente assorto. Lo considerava un suo dovere stare lì con me? Un modo per far piacere ad Albert, il suo amico? Oppure era piacevole per lui passare il tempo con me? Non lo sapevo. Mi mordicchiai l'interno della guancia.

Il cielo si stava colorando della luce rossastra del tramonto quando decidemmo di rientrare. Feci per alzarmi, ma mi prese un capogiro. Allungai le braccia per mantenere l'equilibrio, il mondo che mi vorticava intorno. Herman mi afferrò per la vita. Mi appoggiai a lui, con un misto di fastidio e di sollievo.

-Non ti senti bene?- chiese. Era preoccupazione che vibrava nella voce?

-Ehm, no, in questi giorni mi gira spesso la testa-

-Oh... io non sapevo che... - lasciò la frase sospesa, come se il pudore lo costringesse a tacere.

-Cosa? No, non sono incinta- mi affrettai a dire, avvampando subito dopo.

-Oh... io credevo... -

-Sto bene- ero imbarazzata e notai, forse con un pizzico di soddisfazione, che anche lui lo era.

-Dovresti riposare- mormorò. Era chiaramente la prima cosa che gli era venuta in mente.

Io annuii, decisa a stare al gioco. Più tardi, nella solitudine della mia stanza, avrei ripensato a quel momento. A quanto eravamo stati vicini. Al fatto che avessi percepito il calore del suo corpo. Il pensiero mi turba ancora oggi.

Solo in seguito scoprii che quando qualcuno del villaggio prendeva me per la moglie di Herman, lui non lo correggeva. Lasciava insomma credere che io fossi la moglie e Julien il figlio. Il perché lo facesse, se per comodità oppure per un sorta di soddisfazione personale, non lo seppi mai. In quei giorni però ero molto turbata.

Mi sentivo un'estranea a casa mia. Non avevo mai provato una sensazione simile. Al castello la servitù era sempre gentile e disponibile con me. A casa di zia Dory era la stessa cosa. Era qua che qualcosa non funzionava. Era già iniziato a Parigi. Le domestiche mi guardavano curiose, come se fossi uno strano animale esotico. Avevo sentito una di loro sussurrare che ero troppo giovane. Era quindi quella la mia colpa? Non sapermi imporre? Essere giovane? Mi pentii di non aver osservato con maggiore attenzione mia madre. Come faceva lei? Come riusciva a farsi rispettare? E perché tutto sembrava così difficile? Il fatto che non comprendessi il tedesco rendeva tutto molto peggio.

E poi ci fu l'episodio finale. Successe durante un pranzo, quando una delle domestiche mi fece aspettare un'ora prima di presentarmi le pietanze. Provai a chiamarla, ma tutte m'ignorarono. Gli occhi mi bruciavano per le lacrime. Mi sentivo sola e umiliata. Fu solo l'arrivo casuale di Herman a dare una svolta alla mia situazione. Assistette a tutta la scena e più tardi licenziò la domestica ribelle per poi sgridare tutte le altre. Io mi sentii combattuta. Da una parte ero lieta del suo intervento, dall'altro non capivo perché l'avesse fatto. Mi sentivo umiliata perché non ero riuscita a farmi rispettare da sola.


NOTE DELL'AUTRICE:

Ciao!

Cosa pensate degli ultimi avvenimenti? E di Herman?

A presto

La principessa e la cocotte: in amore e in guerraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora