31. Un risveglio

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Per la prima volta nella sua vita, Hanji Zoe aveva provato quel terribile sentimento di rimpianto e di pentimento chiamato senso di colpa.

Dalla notte dell'incidente nella città sotterranea fino al mio risveglio, avvenuto tre giorni più tardi, l'unica attività della Caposquadra era stata quella di tormentarsi disperatamente nel tentativo di constatare quanto il ritardo del suo arrivo avesse potuto, quella notte, contribuire alla morte di Lexander Hares, deceduto quella sera dopo che tre colpi di arma da fuoco lo avevano privato brutalmente della sua giovane esistenza.

Per tre giorni, Hanji non si concesse alcuna tregua; era stata sollecitata da Erwin a adempiere ai suoi incarichi, tralasciando quello sgradevole episodio capitatomi, malgrado fosse il motivo del suo costante malessere. Il Comandante le spiegò che si sarebbe occupato personalmente delle faccende legali che avrebbero atteso stessa me dopo la mia ripresa e che era stato già assolto il capitano Levi dalle sue mansioni affinché fosse rimasto nei paraggi dell'ospedale militare di Stohess per conoscere ogni aggiornamento da parte dei medici che riguardassero la mia precaria situazione fisica.

Per tre giorni, Hanji non riuscì a chiudere occhio di notte, faticando persino a raggiungere il letto a causa dei continui spostamenti tra la caserma e il distretto in cui mi trovavo priva di coscienza; in quest'ultima sede, difficilmente riusciva ad ottenere notizie riguardanti la sottoscritta e raramente discuteva con Levi, sempre apparentemente silenzioso e impassibile – un atteggiamento a cui stessa lei era abituata già da anni – ma che in realtà, lei lo sapeva bene, non sperava in altro se non in una mia immediata guarigione.

Fu proprio a causa di questa eccessiva sensazione di colpevolezza provata dalla veterana la ragione per cui, in un momento di smisurata angoscia, ella aveva perso la lucidità nel mezzo di uno dei suoi esperimenti sui due campioni di gigante, impartendo ordini poco chiari e perspicaci, provocando il decesso di Albert, uno dei suoi "figlioli" dalle dimensioni discutibilmente proporzionate.

A quel punto, al termine del secondo giorno, a seguito di quell'ennesimo sfortunato accaduto, Hanji ordinò ai suoi sottoposti di interrompere provvisoriamente ogni attività sull'unico esemplare rimasto. Trasgredì il divieto del Comandante di partire per Stohess, giungendo all'ospedale militare subito dopo il raggiungimento del distretto.

Quel pomeriggio, trovò il capitano nella mia stanza, seduto accanto al mio capezzale, intento a sorseggiare un tè alla camomilla.

Anche Levi non aveva riposato per tre giorni: il suo volto si faceva sempre più consumato e spossato, le sue occhiaie sempre più vistose.

Non avrebbe mai avuto il coraggio di confessarlo a qualcun altro, nemmeno alla sottoscritta, ma le preoccupazioni dei medici circa il proiettile conficcato nel mio polpaccio gli avevano procurato la più eclatante delle apprensioni che egli avesse mai avuto modo di provare in quell'ultimo periodo della sua vita.

Il proiettile non era infilato troppo in profondità, ma un eventuale insuccesso chirurgico avrebbe comportato l'asportazione dello stesso polpaccio. Fu proprio durante quei momenti, durante l'operazione, che Levi provò quell'orrenda sensazione di inutilità.

Al termine dell'intervento dei medici, egli aveva deciso di prendersi cura di me, cambiandomi i vestiti e tenendomi sotto osservazione, mentre attendeva che io riprendessi conoscenza al più presto.

Avrei tempo dopo appreso che, di notte, illuminato dalla piccola lampada disposta sul comodino, non smetteva di tenermi per mano. Osservava me, distesa sul letto e priva di conoscenza.

Levi sapeva che si mi sarei ripresa e che doveva fidarsi del parere dei medici. Eppure, in quel momento, quella ragazza temporaneamente moribonda e così vicina alla morte, a cui si era tanto affezionato per chissà quale motivo, gli ricordò lei.

Le Ali della Libertà: Cronache di una recluta del Corpo di RicercaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora