33. Standing in the ashes of who we used to be

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𝙎𝙚𝙩𝙩𝙚 𝙖𝙣𝙣𝙞 𝙥𝙧𝙞𝙢𝙖
𝘼𝙢𝙨𝙩𝙚𝙧𝙙𝙖𝙢, 𝙋𝙖𝙚𝙨𝙞 𝘽𝙖𝙨𝙨𝙞


Myra



Non posso credere che sia qui.
Non posso credere che sia riuscito a trovarmi.
Accenna un sorriso e mi sento di nuovo la bambina maltrattata dal proprio padre.

«Elke, figlia mia», la sua voce mi trapassa il cuore. Vorrei urlargli di sparire dalla mia vista, ma non mi esce una parola.

Ha ragione, di fronte a lui sono solo la spaventata Elke Abels, una tredicenne scappata di casa, figlia di un padre alcolizzato e una madre suicida.

E allora il mio corpo agisce per suo conto: le mie gambe si muovono rapidamente verso il mio appartamento per tentare di sfuggirgli ancora. Corro lungo le scale, salto i gradini con la paura che mi toglie il fiato.
La sensazione di essere seguiti, braccati, quella di non avere via di scampo sono tra quelle che più ho sentito nella vita.
Credevo di essermele lasciate alle spalle, e invece eccomi qui a lottare ancora per sopravvivere.

Le chiavi mi cadono proprio di fronte alla porta, le mani mi tremano; volgo lo sguardo alla mia sinistra e lo vedo arrivare.
Entro di scatto dopo aver girato la chiave, sono sul punto di tirare un sospiro di sollievo... quando il suo piede si inserisce nella fessura della porta.

«Non sei cambiata per niente, Elke.»

Il suo sorriso malmesso mi dà i brividi.
Faccio forza sulla maniglia senza risultati.

«O dovrei dire Belle.»

Ho esitato meno di un secondo nel sentirlo pronunciare quel nome, eppure è bastato a dargli via libera nella mia casa.
Un porto sicuro che non sarà più lo stesso.

«Cosa vuoi? Lasciami in pace», retrocedo mentre lui avanza.

La porta si chiude e vorrei solo scomparire.
Solo ora capisco fino in fondo mia madre e il suo gesto. L'angoscia di rivederlo tutte le sere, la paura del suo umore, della sua violenza imprevedibile.

«Non è il modo di trattare tuo padre dopo tutti questi anni di lontananza», continua a ridere senza motivo così come faceva quando ero piccola. È lo stesso: ubriaco e fatto di chissà quale sostanza.

«Vattene, o chiamo la polizia» lo avverto sperando in un miracolo.

Ride più profondamente.

«Sappiamo entrambi che non lo farai» commenta mostrandomi i denti anneriti.

Frugo nella borsa disperatamente per pochi secondi, prima che mi spinga a terra.

«Sei qui per uccidere anche me?»

Fa un sospiro sommesso, il sorriso scompare e la sua fronte si riempie di rughe.
Lo so.
Il buio che ci circonda non annebbia la mia memoria, ogni raccapricciante istante vissuto con questa bestia.

«Quella puttana si è uccisa da sola», mi sputa addosso la sua verità rassicurante.

La sua, non la mia.
Mia madre si è lacerata dei polsi già segnati, ha spento un cuore tumefatto, ha esalato un ultimo respiro pieno di dolore.
Sento la rabbia repressa invadermi il corpo, e per la prima volta la lascio libera.

𝐃𝐎𝐖𝐍 𝐓𝐎 𝐓𝐇𝐄 𝐁𝐎𝐍𝐄𝐒Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora