23 (Angela)

10 3 0
                                        

Quando Marco tornò mercoledì sera dalla sua trasferta in Norvegia, lo accolsi con un caloroso abbraccio e un tenero bacio. Rimase sorpreso, dato che ultimamente non avevamo scambiato molte manifestazioni di affetto.

«Hai qualcosa da farti perdonare?» chiese con tono scherzoso, ma guardandomi fissa negli occhi.

«No, nulla di particolare. Sono solo felice di vederti.»

Non sembrava molto convinto, ma accettò la mia risposta senza indagare oltre.

La sera precedente qualcosa dentro di me si era rotto. Neppure io capivo bene cosa mi fosse accaduto. Mi sentivo come se dentro me esistessero contemporaneamente due entità: una che faceva sesso con due uomini ed una delle sue migliori amiche ed un'altra che, senza nemmeno comprenderne il motivo, si era trovata a piangere senza speranza. Se mi fossi fermata un attimo a riflettere avrei compreso che era tutto maledettamente chiaro. Solo qualche mese prima non avrei voluto neppure iniziare una storia come quella che stavamo vivendo. Invece, mi ero fatta scopare da Mikael quasi fossi un'adolescente in cerca di un'avventura e, come se non bastasse, ero stata la protagonista principale di un'orgia tra amici. Avrei fatto fatica a riconoscere me stessa nella donna che aveva vissuto nel mio corpo negli ultimi sei mesi. Ma non ero ancora abbastanza lucida da vedere le cose come realmente erano e non riuscivo ancora ad uscire dal vortice che mi aveva risucchiato.

Il venerdì decisi di non uscire. Inventai una scusa plausibile per Lisa e restai a casa.

«Non esci?» chiese Marco.

«No, non mi va. Tu esci?» domandai a mia volta.

«Guarda che io in realtà non sono mai uscito né di martedì quando non ero in trasferta, né tantomeno di venerdì. Sono uscito una sola volta con George per bere una birra in compagnia e mi sono dovuto sorbire un paio d'ore di racconti sulle avventure erotiche di Jenny. Pare che lei non solo faccia sesso con altri uomini, ma gli racconti pure cosa fa, entrando anche nei particolari. Perlomeno tu mi risparmi questo strazio.»

«Sei uscito quindi solo con la tua collega norvegese» risposi attaccando perché non trovavo le parole per rispondere altrimenti. Mi pentii immediatamente di aver risposto in quel modo. Marco non insistette, quasi non avesse detto quelle ultime parole appositamente per procurare una mia reazione.

Cenammo insieme e rimanemmo a casa a vedere un film in televisione. Nella sua semplicità, mi sembrò una serata fantastica. Quando andammo a letto, Marco si addormentò quasi subito. Iniziai a rimuginare su tante cose. I pensieri si affollavano nella mia mente. I sei mesi da coppia aperta stavano quasi per finire. Al contrario di quanto pensassi qualche giorno prima, non avrei voluto prolungare l'esperienza. Come sarà il dopo? pensai. Sarà difficile, quasi impossibile che tutto torni come prima tra di noi. Un'angoscia esistenziale si impadronì di me e non riuscii quasi a chiudere occhio quella notte.

Il martedì successivo Lisa messaggiò me e Jenny chiedendo di trovarci all'Irish Pub quella sera. Confermai la mia presenza anche se di malavoglia. «Esco solo a bere una birra, saluto le amiche e rientro a casa presto» dissi a Marco quasi a volermi giustificare.

«Guarda che non mi devi chiedere il permesso» rispose «come hai detto l'altra sera, siamo ancora una coppia aperta.»

«Prendo l'auto» dissi mentre stavo uscendo di casa, «se esci chiama un taxi.»

«Resterò in casa ad aspettarti, contrariamente al solito» disse Marco con malcelata ironia.

Uscii di casa e mi diressi verso l'auto parcheggiata nel viale antistante. Salii in auto, accesi il motore e mi avviai in direzione della casa dove abitava Jenny. Quando giunsi a destinazione non vidi Jenny ad aspettarmi vicino alla porta come eravamo rimaste d'accordo. Parcheggiai l'auto e mi avvicinai all'ingresso a piedi. Mentre mi avvicinavo sentii che all'interno era in corso un'animata discussione. Le parole ad alta voce sconfinavano a tratti in vere e proprie urla. Rimasi un attimo ferma ad ascoltare, dopo suonai il campanello. Le urla terminarono quasi istantaneamente. Poco dopo Jenny aprì la porta ed uscì in strada.

«Ciao. Scusa il ritardo. Possiamo andare» disse infilandosi il giaccone.

«Problemi?» le chiesi.

«Ma no, le solite menate di George.»

«Sarebbe forse meglio chiamare Lisa ed annullare l'appuntamento» provai a dire. Le urla che avevo sentito non erano le normali parole dette ad alta voce in una discussione tra coniugi.

«Assolutamente no!» rispose secca Jenny. «Ormai litighiamo tutti i giorni. George è sempre più insofferente, non vuole accettare il mio stile di vita. Io non ci penso neppure a rinunciare alla mia libertà. Sono stata chiara. Se continua a non voler accettare che io mi veda anche con altri uomini, ci separeremo e divorzieremo.»

Non osai chiedere altro. Giungemmo all'Irish Pub. Lisa ci attendeva dentro il locale in compagnia di Hans. Era la prima volta che rivedevo uno dei due ragazzi dopo quella serata a quattro. Quando vidi Hans avvertii una sensazione di disagio. Lisa, peraltro, quando ci vide si congedò subito da Hans, che fece un rapido cenno di saluto nei nostri confronti e se ne andò per conto suo. Quasi senza rendermi conto del perché, mi sentii sollevata. Ci sedemmo, ordinammo una birra e iniziammo a chiacchierare. Dopo pochi minuti da che ci eravamo sedute, il telefono di Jenny iniziò a squillare. Jenny guardò il nominativo del chiamante e rifiutò la chiamata. Passarono solo pochi minuti e la scena si ripeté e poi di nuovo, ancora ed ancora per non so quante volte.

«Non sarebbe meglio se rispondessi?» provò a dire Lisa all'ennesima chiamata rifiutata.

«È sempre George. Ha deciso di rovinarci la serata» disse laconica Jenny.

Il telefono poco dopo squillò nuovamente.

«Mi dispiace ragazze» disse Jenny. «Sembra che George non sia intenzionato a darci un taglio. Forse è meglio terminare qui per questa volta e tornarcene a casa. Angela, se mi riaccompagni ti chiedo per favore di fare un salto in casa con me, almeno rassicuri George che siamo uscite solo a bere una birra e null'altro, così si calma.»

«Certamente» risposi e tirai fuori le chiavi dell'auto dalla borsetta confermando senza dichiararlo esplicitamente che ero d'accordo a lasciare il locale e tornarcene a casa. Mentre percorrevamo il tragitto verso casa di Jenny, rimanemmo in silenzio. La notte era serena, senza neppure una nube a nascondere i miliardi di stelle che brillavano nel cielo nero come la pece. L'inverno di giorno iniziava ad allentare la sua morsa, ma di notte le temperature erano ancora rigide. Giungemmo a destinazione e parcheggiai l'auto. Quando Jenny varcò la porta di ingresso iniziò ad urlare. Io mi trovavo ancora sulla soglia e non ne avevo ancora compreso il motivo. Quando feci due passi all'interno dell'abitazione me ne resi conto. Una corda da scalatore era affrancata ad una trave a vista che attraversava, come elemento di arredo, tutto il soggiorno. La corda era stata legata sommariamente ad un capo con due nodi e lasciata penzolare verso il basso. Quel che rimaneva di George era appeso all'altra estremità. Il corpo esanime si trovava a solo pochi centimetri dal pavimento, quelli che erano stati sufficienti a George per interrompere la propria esistenza. Uno sgabello rovesciato accanto al corpo testimoniava la determinazione con cui George aveva messo in pratica il suo proposito.

Jenny subito provò a sorreggere il corpo di George afferrandolo per le gambe, ma si rese conto che era inutile. Affranta dal dolore si rannicchiò sul pavimento, cingendosi con le braccia le gambe piegate. Non riusciva a smettere di piangere e non sembrava capace di alcuna reazione. Io chiamai il pronto intervento e attesi il loro arrivo cercando di confortare Jenny che però appariva come fosse in uno stato di trance.

«No, no, perché?» continuava a ripetere come se fosse un disco rotto; non era neppure in grado di rispondere alle domande della polizia che era arrivata al seguito del medico e dei paramedici.

Chiamai Marco e lo informai sull'accaduto. Dopo meno di mezzora, Marco arrivò percorrendo a piedi il percorso dalla nostra abitazione a quella di George e Jenny. La polizia aveva già provveduto alla rimozione del corpo senza vita.

«Andiamo a casa nostra» disse Marco, «non possiamo lasciare Jenny da sola, non in questo stato e non questa notte.»

Riuscimmo a convincere Jenny a seguirci. Nessuno dei tre riusciva a spiaccicare parola. Quando giungemmo a casa nostra, Jenny si sedette sul divano in soggiorno. Le lacrime le rigavano ancora il viso sconvolto dall'accaduto.

«Ècolpa mia» disse, «l'ho ucciso io.»

Punti di singolaritàDove le storie prendono vita. Scoprilo ora