30 (Angela)

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Questa volta avevo proprio rovinato tutto. Marco aveva trovato un'altra sistemazione. Provai a contattarlo un paio di volte. Rispose alle mie chiamate, ma solo per ribadirmi che considerava terminata la nostra storia. Inseguendo il mio piacere assoluto lo avevo coinvolto in qualcosa di folle, di malato.

Quella notte, mentre facevo sesso con quello sconosciuto, mi sentivo disgustata da me stessa. Stentavo a riconoscere nella donna che ero diventata, qualche traccia della ragazza con ideali che ero stata. Quella ragazza di cui Marco si era innamorato e che adesso non ritrovava più in me neppure lui.

Lisa conosceva solo parte della storia. Mi vergognavo a raccontare quello che avevo fatto anche ad una come Lisa che certo non si scandalizzava facilmente. Aveva provato a consolarmi. Forse si sentiva un po' in colpa perché era convinta che la storia tra me e Marco fosse finita per quel che era successo con Hans e Mikael. Mi propose anche di uscire la sera, ma rifiutai. Non avevo certamente lo spirito giusto per incontrare qualcuno. Presi l'unica decisione possibile, quella di rientrare mestamente in Italia, da sola, senza il marito che avevo perduto nella terra svedese.

Un pomeriggio stavo preparando gli scatoloni con le cose da spedire in Italia. Lisa mi stava aiutando o, meglio, era convinta di aiutarmi. Invece stava solo girando per casa. Afferrava oggetti a cui cambiava di posto senza che questo fosse funzionale a qualcosa. Tuttavia, la sua presenza mi era di conforto. Mentre passavo in rassegna gli oggetti che avevamo utilizzato io e Marco durante quel periodo di vita in comune a Stoccolma, fossi stata sola, sicuramente mi sarei messa a piangere. Chiusi il primo scatolone ed incollai sulla sua faccia superiore il foglio che riportava il mio futuro indirizzo in Italia, quello della casa dei miei genitori. Mentre mi abbassavo per prendere un secondo scatolone, avvertii una sensazione di nausea e la stanza intorno a me iniziò a girare come se fosse stata posizionata su un giradischi che ruotava a quarantacinque giri. Cercai di sorreggermi, appoggiandomi alla spalliera di una sedia, ma crollai al suolo come fossi un birillo colpito da una palla da bowling. Sentii Lisa gridare mentre veniva in mio soccorso. La sentii chiamare con voce alterata il soccorso di emergenza. Mi trovavo in uno stato di semi incoscienza. L'ambulanza arrivò dopo pochi minuti. II paramedici mi caricarono per mezzo di una barella e poi sentii la sirena della vettura farsi largo nel traffico cittadino. Svenni.

Mi risvegliai in ospedale su un lettino del pronto soccorso e con una flebo nel braccio. Mi sentivo meglio. La testa non mi girava più, anche se il senso di nausea si era solo attenuato, non scomparso del tutto. Quando un'infermiera entrò, la porta dello stanzino in cui mi trovavo restò aperto per un istante ed intravidi Lisa seduta che mi aveva seguita in ospedale. Passarono alcuni minuti senza che alcuno si facesse vivo. Dopo un medico entrò nello stanzino, controllò la flebo e disse qualcosa in svedese all'infermiera. Aprì leggermente la porta e fece cenno a Lisa che poteva entrare.

«Ingenting seriöst. Han hade en sjukdom på grund av sitt tillstånd» disse in svedese, «är du gravid.»

Vide dall'espressione del mio viso che non comprendevo cosa dicesse.

«Nothing serious, you are pregnant» ridisse il dottore in inglese.

Questa volta capii e ci mancò poco non svenissi di nuovo.

Quando mi fecero un'ecografia, mi dissero che, orientativamente, ero incinta da dodici settimane, quasi tre mesi. Se prima di apprendere la notizia ero psicologicamente a terra, adesso ero disperata. Dovevo decidere velocemente se tenere il bambino o ricorrere all'aborto.

«Dovresti chiamare Marco» mi disse Lisa, «ha il diritto di sapere. Penso che ti possa essere di aiuto a prendere la decisione migliore per voi.»

«Non c'è più nessun voi. Sono sola con me stessa. Marco non vuole più avere a che fare con me.»

«Ne sei proprio sicura? Anche ora che porti suo figlio nel grembo?»

«Non sono nemmeno sicura che sia suo figlio. E comunque non voglio che si senta in obbligo di fare qualcosa per me.»

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