IL TEMPO SCORRE

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Una settimana dopo la fatidica vicenda, i giorni malinconici passano lentamente.

Mi sto lasciando andare. Non mi curo più. Oscillo tra risate solitarie, pazze e isteriche, e pianti incessanti. Credo davvero di stare impazzendo.

È da poco più di una settimana che resto chiusa in casa, con la luce fioca della lampada al neon. Mangio quasi nulla, solo qualche schifezza rimasta in dispensa o comprata alle macchinette di qualche cinema.
Bevo troppo, davvero troppo. Credo che il mio fegato stia implorando pietà, così come la mia testa, che ringrazia per essere stata narcotizzata con qualche "goccio".

Non dormo. Dormo solo se mi addormento ubriaca in qualche angolo scomodo della casa. Non ho voglia di fare niente, né di vedere nessuno, e soprattutto non voglio pensare.

Mi sento uno schifo. È come se fossi stata investita da un tir e poi ricomposta male.
Non accendo più né il cellulare né il computer. Non voglio leggere messaggi strappalacrime di Grace, né messaggi insulsi di Noah, se mai gli fosse passato per la testa di scrivermi o scusarsi.

Voglio solo bere e restare stravaccata sul divanetto a guardare la TV a volume spento, facendo zapping, o ascoltare musica assordante e ballare senza ritmo, perdutamente ubriaca.

È stato un colpo duro, durissimo, per il mio orgoglio. Un’umiliazione simile non la meritavo. Perché proprio a me?

Il solito mantra "Calma Sarah, calma..." è morto e sepolto. Non esiste più. Sono abitata dal vuoto. Sono un morto che cammina. Odio la luce del sole. Odio tutto, tranne la mia bottiglia.
Sì, sono diventata pazza. Ho bisogno di aiuto, ma voglio restare sola. Non ho bisogno di nessuno. Il vuoto è mio amico. In fondo, che senso ha tutto questo?

Passa un’altra settimana e inizio a sentirmi leggermente meglio.

La casa puzza di chiuso, e di me.
Il mio compagno di avventure, Whiskey, è ancora tra le mie mani e sembra gradire essere sorseggiato direttamente dal collo della bottiglia. Grazie, Whiskey, per il tuo supporto!

Ora, raramente mi siedo sul divano. Il mio nuovo passatempo è barcollare per il salottino, incurante degli spigoli e dei mille lividi che mi procurano. Ma mi sento... viva. Sto intravedendo la luce.

La musica è troppo alta, mi trapana i timpani e mi provoca un mal di testa atroce.

«Alexa, stop!» urlo con voce impastata.

E il silenzio torna, lasciando solo il mio respiro lento.

Affondo sul divanetto con un gran fracasso e poso, mezza stordita, la bottiglia sul tavolino impolverato.
È da settimane che non pulisco. Macchie ovunque. Polvere ovunque.

Torno al solito tran tran: noia mortale, TV accesa a volume minimo, zapping continuo.
Prendo con noncuranza il whiskey, senza nemmeno accorgermi che è finito. Non ne rimane che una goccia. Delusa, lo poggio sul pavimento e riaffondo nel divano.

Gli occhi si chiudono da soli. Entro in uno stato di trance profonda, come un’estasi.
Non so se sia l’alcol o il mio inconscio che cerca di parlarmi.

"Vedo me. Un’altra me. Pulita, pura, vestita di bianco, scalza. Scendo delle scale arcobaleno, sempre più giù, in profondità. Tutto è in penombra.
Al fondo c’è un albero con un buco al centro, come quello di Alice nel Paese delle Meraviglie. Mi avvicino, mi accovaccio e mi butto dentro con metà del busto..."

Il campanello suona. Fortissimo. Mi strappa via dalla mia trance. Sobbalzo, tremo. Sudata, la bocca secca. Il cuore mi esplode in petto. Ho l’affanno.
Cerco invano di ritrovare quella calma, appena sfiorata prima di essere svegliata così brutalmente. Quasi un infarto.

Appoggio le mani sul petto e respiro a occhi chiusi. Il campanello insiste.
Mi alzo barcollando, inciampo nella bottiglia, fortunatamente non si rompe, e cammino scalza in punta di piedi, cercando di fare meno rumore possibile.

Chi può essere? Il cuore batte a mille.
Ho paura. Ma anche curiosità.

E se fosse Noah? E se mi vedesse ridotta così?
Oppure... forse è giusto che mi veda. Che veda cosa mi ha fatto suo padre.

Un altro suono acuto. Sale la paranoia.
Tiro su lo spioncino. È Grace.

Un misto di amarezza e sollievo. Lo chiudo.
Torno lentamente al divano. Il mio nero divanetto mi sta aspettando.

Le ultime due settimane sono state tutte uguali.
Casa buia, bottiglie come uniche compagne, poco cibo, niente comunicazioni. Voglia di vivere: zero.
Non mi lavo, non pulisco. Uno schifo assoluto.

Mi chiedo ancora come io abbia fatto a sopravvivere. Tutto scarseggia. Anche l’alcol.
Nessuno ha più bussato. Solo Grace, due settimane fa. Poi il nulla.

È notte fonda. Da qualche giorno provo almeno a sdraiarmi nel letto, anche se so già che non dormirò.

La mia camera è buia, se non per la pallida luce lunare che filtra dalla tapparella. Illumina appena la mia figura rannicchiata sotto le coperte.
Provo a dormire, ma ogni volta che chiudo gli occhi, tornano gli incubi. Così li tengo aperti. In silenzio. Osservando le strane ombre.

All’improvviso, qualcosa dentro di me mi spinge ad accendere il cellulare. È lì, sul comodino. Spento da un mese.
Lo accendo. Il suono e la luce mi riportano quasi in vita.
Mi siedo a gambe incrociate, lo stringo con entrambe le mani. Spero in un messaggio.
Ho sonno, ma non cedo.

Un bip.
Messaggi. Email.
Il primo è di Grace. Mi chiede dove sono finita. Mi prega di farmi viva.
Sospiro. Lei è dolce, si preoccupa... ma dentro di me speravo fosse lui.

Sto per posare il cellulare, quando sento un bip diverso.
Una email.
Incrocio le dita, sperando non sia spam.
La apro. È lui.

FROM: NOAH STUMPHONE
TO: sarah.rodgerson@gmail.com

Scrivimi. N.

Una tempesta di emozioni mi attraversa.
Sorrido. Poi, subito, torno triste.
La mia decisione è quella di non rispondere.
È il figlio di Robert Stumphone. Non deve avere a che fare con me. È come lui. Lo sarà sempre.

Spengo il cellulare. Lo lancio sul comodino e torno a sdraiarmi.
Copro la testa con le coperte, provando a non pensare.
E nel buio, sento solo il mio pianto.

Circa un mese dopo.

I giorni tristi sono ormai dietro di me. Cammino lentamente per il salottino, sorseggiando una tazza di caffè.
Sì, proprio caffè. Dopo un mese passato col mio vecchio amico whiskey, l’ho finalmente mandato al diavolo.

Forse sto ricominciando.
Sto provando a recuperare pezzi di me.
Non trovo ancora una logica a tutto questo, ma ci provo.
Mi chiedo ancora: che cosa voleva davvero Noah?
Domande confuse. Risposte assenti.

Ma ho bisogno di tornare in me stessa. In Sarah.
Vivere. Essere felice. Andare avanti.
In fondo, non è stata colpa mia.

Il campanello interrompe la mia riflessione.
Sono le nove e trenta del mattino.

"Chi sarà mai?" penso, voltandomi verso la porta.

Fuori, una voce maschile urla:
«Posta!»

Poso la tazza.
Non me la sento di aprire, conciata come sono.

«La lasci pure vicino alla porta, grazie!» rispondo ad alta voce.

Un secondo dopo, ho tra le mani un giornale avvolto nella plastica.
La scritta in copertina mi colpisce: TROVA LAVORO.

Lo apro con avidità. La plastica finisce per terra.
Lo sfoglio con intenzioni serie. Forse, la fortuna sta cambiando.

Mi siedo sul divano.
Un annuncio mi cattura.

"Cercasi ragazza di bella presenza per spettacoli lap dance notturni. Compenso adeguato. Per informazioni: 555 0149 – Josh Lemaine. Zona Grand W 46th St, New York – The Fire Phoenix Night Club"

Mi mordo il labbro inferiore. Ci penso.
Sono davvero tanti soldi. "Più facili", forse. Ma in questo momento…

Guardo l’annuncio ancora aperto davanti ai miei occhi. E decido. Per una volta voglio pensare soltanto a me.
La reputazione può anche aspettare.

INSIDE OF MEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora