CAPITOLO 21

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Monastero di Uclés

Spagna

21

Lapo si svegliò all'improvviso, come se fosse stato scosso dalla mano di un gigante. La testa gli faceva un male del diavolo. La lingua era meno gonfia, ma ancora secca e intorpidita.

Faticava a deglutire.

«Dategli da bere.»

Qualcuno gli appoggiò un bicchiere con dell'acqua fresca sulle sue labbra.

Lapo sorseggiò piano. Poteva muovere solo il collo, ma tanto gli bastò per rendersi conto che si trovava in una stanza scura, simile alla cripta di un monastero, dal soffitto basso e con solo una piccola finestra sulla parete di fronte. Era immobilizzato a una sedia di legno fissata al centro del pavimento in pietra scura. Le mani e le caviglie erano bloccate da stringhe di cuoio che lo cingevano da parte a parte per poi finire con un gancio di ferro inserito alla base della sedia stessa.

«Dove sono?» biascicò.

«Non ha importanza» gli rispose la voce di poco prima. Lapo tentò di focalizzare da dove venisse, ma la semioscurità gli impediva di vedere con chiarezza. Cercò di divincolarsi dalla stretta delle cinghie, ma senza risultato. Era ancora troppo debole.

«Fossi in lei non mi sforzerei. La dose di antidoto che le abbiamo appena somministrato non è sufficiente a ridarle le forze. Serve solo a mantenerla in vita» riprese la solita voce «almeno per le successive due ore.»

«Antidoto? A cosa?»

«Alla tetradotossina che le è stata iniettata.»

Lapo si sforzò di ricordare. Sprazzi di luce gli attraversarono la mente. Gli apparve il contorno di un uomo, il volto di una donna, un sentiero nel bosco, il dolore di una puntura. Nient'altro.

«Si tratta di un veleno letale» la voce stava continuando a parlare «che noi però siamo riusciti a modificare per adattarlo ai nostri scopi. Se una persona morisse nel giro di pochi minuti non ci servirebbe a un gran che, non trova?» si udì una leggera risata. Ma Lapo non lo stavo ascoltando, chiunque fosse. Stava tentando di ricostruire ciò che era successo, ma faticava a mettere i tasselli uno accanto all'altro.

La sua mente era annebbiata, e si sentiva come se stesse vivendo in una sorta di limbo. Era rallentato e ovattato.

«È naturale che si senta stanco» commentò la voce. «È rimasto in stato catatonico per quasi venti ore. E lo sarebbe ancora se non le avessimo dato quella piccola dose.»

«Perché non uccidermi subito, allora?» riuscì a balbettare digrignando i denti.

«Glielo l'ho già detto. Da morto non ci sarebbe di alcuna utilità. Abbiamo bisogno che ci fornisca qualche informazione, tutto qua.»

«Su cosa?»

«Non ricorda proprio niente?»

Lui scosse la testa.

«Lo farà. Deve solo avere un po' di pazienza, giusto il tempo che gli anticorpi blocchino momentaneamente l'avanzata del veleno. È ancora troppo presto. Torneremo fra una mezz'ora. Poi potremo parlare.»

«Chi siete?» tentò di urlare ma gli uscì solo un rantolo gracchiante.

Nessuno gli rispose. Subito dopo udì dei passi sul pavimento e poi il tonfo sordo di una porta che si chiudeva.

Era solo.

Sarebbe stata l'occasione perfetta per fare qualcosa. Ma cosa? Non si poteva muovere e non aveva la forza per tentare di liberarsi dalle cinghie. La testa gli faceva male, il respiro era affannato e l'intero corpo lo percepiva come se gli fosse estraneo.

No, la verità era che sarebbe probabilmente morto lì.

Anche se non era al massimo della lucidità, non era uno stupido. Qualunque cosa volessero quelle persone da lui, una volta ottenuta non lo avrebbero di certo lasciato libero. Avrebbero atteso che il veleno riprendesse il suo corso e lo avrebbero lasciato morire. La cosa assurda era che in quel momento non riusciva a provare niente. Né rabbia, né dolore, né rimpianti.

Niente.

Ironia della sorte, il veleno che lo avrebbe ucciso gli stava in qualche maniera facilitando il grande passo. Chinò la testa sfinito e spossato da quei pensieri.

Tra poco sarebbero tornati. Non gli rimaneva che attendere l'evolversi degli eventi.

Qualunque essi fossero.

***

Isabel ribolliva di rabbia. Mandando Armand Amaury in Francia, il Gran Maestro aveva tradito la sua fiducia. L'aveva giudicata non degna della missione e questo un Cavaliere di Santiago non lo poteva accettare.

Il codice di cavalleria, che si tramandava di generazione in generazione fin dalla lontana fondazione dell'Ordine, aveva sempre imposto che ci fosse lealtà, solidarietà e fiducia fra tutti i membri. E mai nessuno avrebbe tradito un suo pari.

Mai, pena la morte.

E così era stato, fin dal 1175. Ma adesso Fernando Correa aveva infranto quel patto secolare, dimenticandosi dello spirito che aveva animato tutti i Maestri prima di lui.

Ripensò a quel prete.

Non riusciva proprio a capire cosa Correa avesse visto in lui di così speciale da nominarlo addirittura Cavaliere prima del tempo.

Strinse i pugni. Doveva calmarsi. Tutta quella rabbia non le avrebbe giovato. Doveva ritrovare la concentrazione o avrebbe rischiato di farsi scoprire. Fortuna che era arrivata a Uclès quando ormai era notte fonda e conoscendo il monastero come le sue tasche, non aveva trovato difficoltà ad entrarvi senza essere notata. Il buio aveva poi coperto le sue tracce.

Già immagina dove Correa avesse portato quell'agente italiano, ed era anche più che sicura che avrebbe usato su di lui il solito espediente della tetradotossina.

Da quel punto di vista era decisamente prevedibile. Perciò, prima di trovare un luogo dove nascondersi, era passata dal suo studio e aveva rubato una dose di antidoto. Adesso, con la mente agitata da mille pensieri, se ne stava rannicchiata in una rientranza del muro, poco distante dal sotterraneo in cui era tenuto prigioniero Lapo Colonna.

In mano la pistola con il silenziatore.

I custodi del destinoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora