Capitolo 4 - Sam

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Ci sediamo ad un tavolo vicino alla vetrata che dà sulla strada. Mi sento un po' esposto, ma mi trattengo dall'esternare il mio disagio: credo di aver abusato fin troppo della sua pazienza. Intorno a noi la gente mangia e mi accorgo che è ormai passato mezzogiorno. Il mio stomaco borbotta ed ho il sospetto che qualcosa di diverso dall'acqua potrebbe sciogliermi un po' troppo la lingua. Mi rendo conto che non è stata una grande idea venire qui con lei, e prolungare questa parentesi trasformandola in un pranzo sarebbe ancor più imprudente da parte mia, quindi mi riprometto di trangugiare alla svelta un aperitivo e di filarmela.

Lei ordina per entrambi un intruglio sospetto che dall'odore, e nonostante il colore, di sicuro non è succo d'arancia. Per fortuna i bicchieri ci vengono serviti accompagnati dalla classica ciotola di noccioline tostate, che spero attutiscano lo shock alcolico.

So che probabilmente dovrei dire qualcosa, ma sto ancora cercando di capacitarmi della mia avventatezza: se non rientrava nei piani dare confidenza a qualcuno, figuriamoci abbracciare, rassicurare e intrattenermi con un'estranea! A cosa pensavo quando ho deciso di accompagnarla in questo bar?! Era proprio necessario avventurarmi fin qui per tentare di placare il suo stato di agitazione? No!

Mi sono spinto troppo oltre, ho permesso al vecchio me di emergere, accantonando la maschera di indifferenza e distacco che, con tanta fatica, mi sforzo di indossare.

È lei a rompere il ghiaccio:

«A quanto pare Lauren aveva ragione dopotutto: potrei avere bisogno di uno strizzacervelli», confessa con un sorriso che non nasconde però un velo di amarezza.

«Tessa, davvero, non è successo niente di grave», mi preme assicurarle, cogliendo il suo imbarazzo. «C'è chi ha la stessa reazione alla vista di un topo, di un insetto o di un grande spazio aperto. Ognuno ha le sue fobie e non è facile razionalizzarle».

Ma come siamo affettuosi! Perché non le prendi anche la mano? Dicono sia un metodo infallibile per tenere le persone a distanza!

«Tu di cosa hai paura?», mi chiede a bruciapelo.

Sulle prime esito, per poi propendere per la pura e semplicità onestà: «Delle persone. Di quanto possano essere crudeli e superficiali. So che questa risposta vince il primo premio della fiera della banalità, ma quando sbatti forte il naso contro l'egoismo umano l'impatto è devastante», rispondo cupo.

«Wow... Io pensavo te ne uscissi con qualcosa tipo gli uragani, i cani di grossa taglia... cose così», ribatte sorpresa. «La tua comunque è una paura bella tosta da superare: la stupidità umana è molto più diffusa degli ascensori ed è un po' più complicato starne alla larga», riflette.

Non do seguito alla sua osservazione e, intuendo forse la mia riluttanza ad approfondire la questione, sceglie di battere un sentiero meno insidioso: «Mi spiace che l'appartamento che abbiamo appena visto non ti sia piaciuto. Del resto non posso darti torto, era antiquato e cupo. Non amo le case in cui per avere luce devi per forza aprire le tende».

«Sì, ho avuto la stessa sensazione. Preferisco ambienti più luminosi. Forse quell'edificio è un po' datato e porta con sé il gusto di altri tempi, mentre io mi sento più a mio agio in ambienti essenziali e ariosi», spiego.

«Beh, è un punto di partenza! Ora ho qualche indizio in più per poterti proporre soluzioni che si adattino meglio al tuo gusto», dice ritrovando l'entusiasmo.

Poi si blocca, di nuovo imbarazzata: «Ovviamente se intendi ancora appoggiarti alla nostra agenzia... Capirei se preferissi rivolgerti ad altri. Parlerò con Lauren, le spiegherò cos'è successo, non dovrai giustificare in alcun modo la tua decisione. Lei si aspetta sempre qualcosa di strampalato da me. Non che combini spesso casini come quello di oggi, sia chiaro! Ma mi conosce abbastanza bene e non si stupirà più di tanto».

«Non c'è ragione per cui tu non mi possa aiutare a cercare casa», ribatto deciso prima di riuscire a frenare la lingua.

Ma sei serio? Vogliamo fare amicizia adesso?

Oh, al diavolo! Non voglio che questa ragazza passi dei guai per una tale sciocchezza.

Oltretutto quale sarebbe l'alternativa? Visitare ogni singolo appartamento con un agente immobiliare ogni volta diverso per sperare di passare inosservato? Di quel passo in due settimane diventerei la persona più popolare di questa dannata cittadina, e non per meriti di simpatia. Meglio torturarne una sola e trovare quanto prima una sistemazione decente!

Prima ch'io riesca a trattenermi mi sento poi aggiungere:

«Tessa, credo di doverti delle scuse per il mio comportamento di stamattina. Tu sei stata molto gentile e disponibile ed io decisamente poco collaborativo. Vorrei essermi comportato in maniera diversa, ma sto attraversando un brutto periodo e la buona educazione è ancora chiusa in valigia con i miei vestiti», ammetto.

Non puoi proprio farne a meno, vero?

«Ti prego, non ti scusare», minimizza lei, sventolando una mano. «Certo, ho avuto conversazioni più interessanti con la mia paperella nella vasca da bagno, ma il salvataggio in ascensore ti ha rimesso in pari», dichiara. «Vediamola in questo modo: se siamo partiti sfoggiando i nostri peggiori difetti, d'ora in poi sarà tutta discesa!».

«Davvero mi hai appena paragonato ad una paperella di gomma?», chiedo stupito e un po' offeso.

«Direi proprio di sì», ammette convinta. «Forse non avrei dovuto, visto che ti conosco appena, che sei un cliente - probabilmente con un pessimo carattere - e che per oggi sei sul mio podio degli eroi. Non posso neanche attribuire il mio eccesso di sincerità all'aperitivo non proprio leggero che al momento sta disintegrando le due noccioline che ho mangiato, né al trauma da ascensore, nonostante sia stato notevole. È che sono così e basta: ho mandato in vacanza il filtro tra cervello e bocca molto tempo fa, visto che si è rivelato essere più dannoso che utile. E nonostante tu sia bello da togliere il fiato, qualcuno te lo deve pur dire che sai essere un tantino stronzo... L'ho detta ad alta voce quella cosa del "bello da togliere il fiato"?», chiede aggrottando le sopracciglia.

Passo dallo stupore alla più epica delle risate, il cui suono, ormai quasi dimenticato, sembra sconosciuto persino a me.

La voce cupa e malfidente che di solito mi borbotta nella testa è appena stata zittita dall'incredibile ragazza, allegra e un po' pazza, che mi siede davanti; che mi ha fatto prendere un colpo in ascensore quando credevo mi sarebbe svenuta tra le braccia e che ora mi prende tranquillamente per il culo per la mia scarsa loquacità.

E la sensazione di leggerezza lasciatami da questa inaspettata allegria è tanto potente e disarmante da sorprendermi. Quell'opprimente senso di sconfitta che mi tormenta da due mesi per un attimo si affievolisce e capisco che forse non è che uno stato mentale, pigro e indolente, che solo io posso risanare.

Guardo l'orologio, decidendo di assecondare il tanto familiare istinto di fuga:

«Ora devo proprio andare, Tessa. Grazie per il tuo tempo. Se trovi qualcosa che fa al caso mio chiamami. Lauren ha il mio numero», dico alzandomi.

«Ok, mi metterò subito al lavoro. Grazie ancora di tutto», sorride e mi tende la mano. Ricambio sbrigativo il saluto, calandomi gli occhiali da sole sugli occhi, come fossero una barriera magica che può rendermi invisibile.

Pago, usciamo dal bar e scelgo di proposito la direzione opposta alla sua. Decido di fare due passi prima di ritornare all'albergo che mi ospita da qualche giorno: ho bisogno di schiarirmi le idee.

È stata una mattinata intensa, non c'è che dire.

Di sicuro non mi aspettavo nulla di simile, tanto meno di lasciarmi travolgere e coinvolgere da un tornado di nome Tessa, che mi ha stordito con le sue chiacchiere, contagiato con il suo buonumore; di fronte a cui ho abbassato la guardia, senza sentirmi minacciato.

È stato liberatorio e destabilizzante al tempo stesso. Ma in fin dei conti sono qui per questo, giusto? Per lasciarmi alle spalle quello a cui ho scelto di rinunciare; per costruirmi un'identità, una vita.

Mi chiedo tuttavia come mai io abbia permesso proprio a lei di guardare oltre la maschera. Forse la misura è colma e non riesco più a fingere l'impassibilità che mi sono cucito addosso per preservare la mia armatura.

Quando credo di aver messo abbastanza distanza, mi volto per un breve attimo, per guardarla un'ultima volta, cercando di ignorare il mezzo sorriso che sento incurvare un angolo della mia bocca.

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