Capitolo 10 (Vittoria interiore)

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Martedì, 24 Settembre
Theo.

La sveglia esplose nel silenzio della stanza, frantumando il fragile equilibrio della mia mattinata. Alle sei precise, lo stesso suono tagliente come una lama che non mi dava tregua. Oggi, però, sembrava persino più invadente, più insistente. Mi girai nel letto, tirando le coperte fino alla testa, cercando di soffocare quel rumore con l'illusione di poter tornare a un riposo che non esisteva più. Fuori dalla finestra, il buio era ancora spesso, immobile, come se il giorno si fosse dimenticato di nascere.

Non mi abituavo mai a quel momento, quando l'unica forza che avevo era quella di scendere dal letto solo per iniziare a sentire il peso della giornata. La partita mi bruciava dentro, come una fiamma che non si spegne mai, anche quando ti dici che tutto andrà bene. E poi c'era Becky. Un nome che mi passava tra i pensieri, lasciando ogni volta dietro di sé un senso di irrequietezza.

Decisi di alzarmi e infilare le scarpe da corsa, i muscoli intorpiditi ma la mente già troppo sveglia. Uscii di casa e l'aria del mattino mi colpì il viso, una scossa di freddo che mi svegliò fino in fondo. Mi misi a correre, meccanicamente. Piede dopo piede, respiro dopo respiro, lasciando che il rumore dei miei passi spezzasse il silenzio. Ma anche con quel ritmo incessante, i pensieri rimanevano lì, appesi. La partita, Becky, mio padre. C'era un ordine in tutto ciò, una costante che mi rendeva sempre più difficile ignorare quel groviglio di emozioni.

Quando rientrai, la doccia mi lavò via la fatica, ma non i pensieri. Mi sedetti a fare colazione in una cucina immobile, dove l'unico suono era quello del cucchiaio che sbatteva contro la tazza. Era il solito silenzio, quello che una volta accoglievo e che oggi mi faceva sentire sempre più solo. Mi chiedevo se quel vuoto sarebbe mai cambiato, se un giorno sarei riuscito a sedermi qui senza sentirmi incompleto.

Arrivato a scuola, mi diressi subito in palestra. Coach era già lì, pronto a farci lavorare come mai prima. Il riscaldamento fu solo l'inizio di una serie di esercizi che avrebbero messo alla prova ogni muscolo del nostro corpo. Eppure, mi sentivo come se stessi arrancando. Ogni volta che sbagliavo, ogni richiamo di Coach era come un colpo alle mie sicurezze. Eppure non mollavo. Non potevo mollare.

Verso metà mattina ci ritrovammo in spogliatoio per discutere le tattiche. L'atmosfera era sospesa, come se tutti stessimo trattenendo il respiro. I miei compagni sembravano sentirsi come me, ognuno perso nei propri pensieri, cercando di fare forza su sé stesso. E fu allora che capii: non ero solo. Ognuno di loro portava il peso della propria ansia, delle proprie aspettative, e quella scoperta mi diede una forza che non sapevo di avere. Guardai i miei compagni, uno a uno, e trovai nei loro sguardi una consapevolezza che mi calmava. Eravamo insieme in quella battaglia.

La giornata in classe si trascinò in un limbo di distrazione. Le lezioni andavano avanti, ma io ero altrove, già in campo, già immerso nella tensione della partita. Pensavo a Becky, al suo sguardo in libreria, a quel silenzio che mi ricordava che avevo sbagliato, che non avevo trovato il coraggio di parlare con lei. Poi mio padre: si sarebbe accorto della partita? Sarebbe venuto a vedermi? Mi rendevo conto che non aspettavo mai davvero il suo supporto, ma non potevo fare a meno di desiderarlo.

Quando arrivò l'intervallo, pranzammo tutti insieme. Ci provammo a distrarci, a parlare d'altro, ma ogni risata sembrava portare con sé un'ombra di ansia. Stavamo aspettando la battaglia, e ogni secondo che ci avvicinava alla partita rendeva quella sensazione più intensa, quasi soffocante.

Finalmente, il momento arrivò. Nel silenzio dello spogliatoio, mi misi la divisa, come un'armatura, e mi guardai allo specchio. I miei occhi riflettevano tutta la tensione, ma c'era anche qualcos'altro: una volontà di acciaio, un desiderio di dimostrare a me stesso chi ero. Quando sentii il fischio dell'arbitro, tutto il resto sparì.

La partita iniziò e fu un vortice di energia, di corsa, di azione. Eravamo una squadra, un'unica entità che si muoveva in sincronia, e quando l'arbitro fischiò la fine, il tabellone segnava la nostra vittoria. Guardai il punteggio e sentii un sollievo profondo, come se un peso enorme si fosse sollevato dal petto.

Festeggiammo insieme, urlando, saltando. Ma mentre tutti esultavano, io rimasi indietro, con un sorriso che nascondeva ancora una strana inquietudine. E in mezzo alla folla, la vidi: Becky, con Lily, che mi osservava. I nostri sguardi si incrociarono e, in quel momento, tutto il resto svanì. C'era solo lei, e il sorriso timido che mi rivolse prima di abbassare lo sguardo.

Più tardi, tornai a casa, ancora incredulo. Mio padre era lì, seduto a tavola, e quando mi chiese della partita, mi sentii invaso da una gratitudine profonda. Mi ascoltò, davvero, e quando mi disse che era fiero di me, quelle parole ruppero qualcosa dentro di me. Una barriera che non sapevo di aver costruito.

Quella sera, chiusi gli occhi sentendomi per la prima volta più leggero. Avevo vinto una partita, certo, ma sentivo di aver ottenuto molto di più. Becky, la squadra, mio padre: erano lì, in un modo o nell'altro, e io avevo trovato il mio posto. Con quella sensazione, il sonno mi accolse, portando via il peso di ogni paura e lasciandomi solo il ricordo di una giornata che non avrei mai dimenticato.

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