Capitolo 7 (Muri invisibili)

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Giovedì, 19 Settembre
Theo

Quel pomeriggio, il sole brillava di una luce che sembrava non avere nulla di reale. Un fascio dorato che scivolava tra gli alberi e scioglieva ogni traccia di pesantezza, ma non dentro di me. Dentro di me, la tensione cresceva inesorabile, come un fuoco che non volevo alimentare, ma che bruciava lo stesso. Accettare l'invito di Becky era stato quasi automatico, come se avessi deciso senza sapere di averlo fatto, come se avessi lasciato che qualcosa fuori da me dirigesse le mie azioni. Era più facile così, non pensare. Eppure, man mano che mi avvicinavo alla libreria, le domande erano diventate un rumore insostenibile. Cosa stavo cercando? Cosa volevo veramente da questa storia?

I miei passi si facevano più lenti, quasi appesantiti dal pensiero che la strada davanti a me fosse interminabile. Ogni cosa intorno sembrava sfocata, come se una nebbia sottile mi separasse dalla realtà. La città, con i suoi rumori e le sue immagini familiari, si dissolveva in un mormorio lontano, quasi che il mondo non avesse più importanza.

La libreria. Ancora una volta quella libreria. L'ultima volta che ci eravamo visti, tutto era scivolato via in maniera naturale, le parole, gli sguardi, il tempo. Ma oggi... oggi non c'era niente che mi facesse sentire in controllo. Come se, da un momento all'altro, tutto potesse sfuggire. Il messaggio che avevo inviato, quella piccola richiesta di riconciliazione, mi stava sembrando un errore. Un errore che non sapevo se potevo ancora correggere.

La vidi subito. Seduta sulla panchina, il libro tra le mani come un rifugio, e intorno a lei, il mondo sembrava seguire il ritmo dei suoi movimenti. I suoi capelli, illuminati dal sole, brillavano come fili d'oro. Mi sentii ridicolo per aver pensato che tutto fosse più complicato di quanto fosse in realtà. Ma era troppo tardi per tornare indietro. La sua vista mi strappò dal mio turbinio di pensieri.

Quando mi notò, mi sorrise, e il sorriso che mi regalò fu un colpo al cuore, un sorriso che mi faceva sentire come se tutto fosse ancora possibile. La sua semplicità mi metteva in crisi. Non volevo che fosse così semplice. Non volevo che qualcosa dentro di me si sbloccasse. Eppure, ogni volta che la guardavo, sentivo che stavo perdendo il controllo. Il suo sorriso era una scossa elettrica, una chiamata che non potevo ignorare. Ma cosa avrei dovuto fare? Digerirlo in silenzio?

"Ciao," dissi, avvicinandomi a lei senza davvero sapere cosa dire. Non c'era niente di naturale in quel momento. "Sei già qui da molto?"

"No, appena arrivata." Chiuse il libro e si alzò con quella grazia che sembrava venire da un altro mondo. "Pensavo di entrare e dare un'occhiata ai nuovi arrivi. Vieni?"

La seguii senza una parola, come un automa che si muove senza una meta. Entrando nella libreria, il profumo di carta e inchiostro mi avvolse. Di solito, quell'odore mi calmava, ma oggi non era sufficiente. Niente riusciva a fermare il frastuono dentro di me. La mia mente era in uno stato di costante allerta, un mare in tempesta che non riusciva a placarsi.

Becky si muoveva tra gli scaffali con la familiarità di chi conosce ogni angolo, ogni volume. Io ero lì, a guardarla senza vedere nulla. Mi passò un libro. Lo guardai distrattamente, ma non riuscivo a formulare una risposta che avesse un minimo di senso. Le sue parole si susseguivano, ma non afferravo niente. La mente era altrove.

Quando prese il romanzo di cui mi aveva già parlato altre volte, lo tenne tra le mani con un gesto di cura che mi colpì senza che potessi impedirlo. Quel semplice atto mi fece sentire piccolo, inadeguato. Non riuscivo a trovare un appiglio, una risposta che potesse in qualche modo farsi strada tra i pensieri che mi opprimevano. Semplicemente seguivo i suoi movimenti, senza poter fare altro.

Pagammo e uscimmo dalla libreria. Non avevo nessuna idea di dove stessimo andando, ma camminai al suo fianco come se fosse il mio unico destino. Il cielo sopra di noi, di un azzurro perfetto, sembrava una bugia. Tutto sembrava perfetto, ma in me c'era un abisso che non riuscivo a colmare. Il suo parlare mi riempiva, ma non mi liberava. Quella tranquillità che Becky sembrava avere, quella leggerezza con cui affrontava ogni cosa, mi faceva sentire più distante da me stesso. Forse era questa la sensazione che mi metteva più a disagio: il suo modo di rendere tutto così semplice, mentre dentro di me niente lo era.

Arrivammo al parco e ci sedemmo su una panchina. Il laghetto rifletteva il cielo e gli alberi in un gioco di colori che non riuscivo a guardare davvero. Un silenzio pesante ci avvolgeva, ma non era il tipo di silenzio che porta pace. Era quello che succede quando c'è qualcosa di non detto, quando due persone si siedono fianco a fianco eppure non riescono ad abbattere la distanza che li separa.

Poi, senza preavviso, Becky parlò. "Ti va di parlarmi di te, Theo?" La sua voce era calma, ma c'era quella sfumatura di curiosità che mi colpì come un pugno nello stomaco.

Restai in silenzio per un attimo, incapace di rispondere. La domanda mi stava perforando senza pietà, e non ero pronto. Non volevo. Non potevo. Parlarle di me sarebbe stato aprire una porta che non ero sicuro di voler attraversare. Mi guardai intorno, come se avessi potuto scappare da quella domanda, ma sapevo che non c'era via di fuga.

"Non c'è molto da dire," risposi infine, a bassa voce. "La mia vita è piuttosto normale." Le parole suonarono false appena uscirono dalla mia bocca, ma non c'era altro che potessi dire.

Becky rise, e quel suono mi trafisse, più di quanto volessi. "Non ci credo nemmeno per un secondo," disse, con un sorriso che sapevo non fosse solo gentilezza.

Mi strinsi nelle spalle, cercando di distogliere la conversazione da quella zona minata. Non potevo permetterle di avvicinarsi, di scavare troppo in profondità. Era più sicuro così, eppure più mi allontanavo, più sentivo che stavo perdendo qualcosa. Forse la cosa giusta, forse la più pericolosa.

Il resto del pomeriggio fu una sequenza di chiacchiere leggere, fughe da domande che non avevo voglia di affrontare. La sua presenza, la sua voce, tutto sembrava essere il rimedio temporaneo a qualcosa che stava crescendo dentro di me. Ma non bastava.

La riportai a casa quando la sera cominciò a calare. Il cielo si faceva sempre più arancione, e le ombre si allungavano tra noi. Mi salutò con un sorriso, ma non riuscii a dire nulla. Le parole mi restarono bloccate in gola. Volevo dirle qualcosa. Qualcosa che spiegasse il mio silenzio, il mio distacco. Ma niente uscì.

"Ci vediamo domani a scuola?" chiese, sperando in una risposta che non avrei dato.

Annuii senza parlare, e guardai il suo passo lento allontanarsi. Quella sensazione nel petto, quel vuoto che non riuscivo a riempire, mi attanagliava. Mi stavo perdendo qualcosa. E mi faceva paura. Quella paura che sapevo sarebbe troppo tardi per affrontare, troppo tardi per cambiare. Il muro che avevo costruito attorno a me si stava alzando, e sapevo che ormai non c'era più modo di abbatterlo.

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