Capitolo 20 (Lontananza inaspettata)

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Mercoledì, 10 Gennaio
Theo

Il suono stridente della sveglia tagliò l'aria della mia stanza, riducendo il silenzio della notte a un ricordo lontano. Non ero pronto per affrontare il mondo, ma il mondo non si preoccupava della mia preparazione. Con un movimento stanco, allungai la mano e spensi la sveglia, sentendo la mano pesante come piombo. Il freddo mattutino mi avvolse subito, penetrando le coperte e facendomi rabbrividire. Restai immobile per qualche secondo, fissando il soffitto come se da quelle crepe potessi estrapolare risposte a tutte le domande che mi tormentavano.

Era il 10 gennaio. Il ritorno a scuola era già qui, più veloce di quanto avessi sperato. Le vacanze erano volate via in un battito di ciglia, lasciandomi con un retrogusto amaro, la sensazione di aver perso qualcosa che non sarei mai riuscito a riprendere. La routine scolastica mi soffocava, il pensiero di rituffarmi in quella monotonia mi dava il voltastomaco. Alla fine, con un respiro pesante, scivolai fuori dal letto. Ogni movimento sembrava più faticoso del solito, come se avessi addosso delle zavorre invisibili che mi legavano alle caviglie e ai polsi.

Mi infilai i soliti jeans consumati e una felpa grigia, senza pensarci troppo. Non cercavo conforto, solo qualcosa che mi tenesse insieme. Il pavimento sotto i piedi nudi era gelido, ma non mi importava. Quel freddo sembrava riflettere esattamente quello che c'era dentro di me, come se ogni sensazione fisica fosse un'estensione di quello che provavo.

In cucina, mio padre era già pronto per uscire. La giacca che indossava lo faceva sembrare ancora più vecchio, come se anche lui stesse portando un peso che non riusciva a liberarsi. Non mi guardò nemmeno quando disse, con voce monotona, «Torna presto stasera». Le sue parole erano vuote, quasi rituali, come se non avessero più significato. Non risposi. Presi lo zaino e uscii senza fare rumore.

L'aria fredda mi colpì il viso quando lasciai la casa. Era pungente, secca, e mi fece quasi desiderare di non essere mai uscito. Il cielo sopra di me era grigio, come se il sole avesse deciso di non farsi vedere quel giorno. Le strade erano semi-deserte, e il silenzio attorno a me sembrava soffocante, rotto solo dal rumore di qualche macchina che strisciava sull'asfalto gelato. Camminai fino alla fermata del bus, le mani affondate nelle tasche del giaccone, cercando di conservare quel minimo di calore che sembrava svanire più velocemente di quanto riuscissi a prenderlo.

Il bus arrivò con il solito stridore dei freni. Salii senza entusiasmo, scegliendo un posto in fondo, vicino al finestrino. Appoggiai la testa sul vetro freddo, chiudendo gli occhi, cercando di sottrarmi a tutto ciò che mi stava sopraffacendo. Purtroppo, la pace non durò a lungo.

Quando arrivai a scuola, il cancello mi fece sentire come se un nodo invisibile si fosse stretto attorno al mio petto, rendendo ogni respiro più difficile. Il gruppo di ragazzi all'ingresso era lo stesso di sempre, chiacchieravano animatamente come se non fosse cambiato nulla. Alcuni mi salutarono, altri mi ignorarono come se fossi un'ombra che attraversava la loro vita. Niente di nuovo.

Mentre mi avvicinavo all'ingresso, un pensiero mi colpì come un fulmine: Becky. Mi chiesi se lei avesse pensato a me durante le vacanze, o se per lei fossi ormai solo un fantasma del passato, qualcuno da cui si era allontanata senza rimpianti.

Da quando l'avevo vista alla festa di Capodanno, il mio cervello non faceva che torturarmi con queste domande. Avevamo condiviso quel momento che sembrava quasi importante, ma io non riuscivo a capire cosa avesse significato per lei. Forse niente. Forse per lei ero solo un altro nome nella lunga lista di ragazzi che passano nella sua vita senza lasciare traccia.

Entrai in aula e mi sedetti al solito posto, vicino alla finestra. Il banco davanti a me era vuoto, e lo fissai per qualche secondo, come se quel vuoto potesse rispecchiare il mio stato d'animo. Cominciai a scarabocchiare sul quaderno, disegnando linee casuali solo per tenermi occupato, per non pensare.

Poi, Becky entrò. La sentii prima di vederla, come sempre. I suoi capelli castani le scivolavano sulle spalle con naturalezza, e indossava la sua giacca bordeaux che avevo visto un paio di volte. Mi lanciò uno sguardo rapido, quasi timido, poi distolse subito gli occhi. Quel breve contatto mi fece tremare dentro, e un nodo familiare si strinse al mio stomaco.

Le lezioni iniziarono, ma non riuscivo a concentrarmi su nulla. Le parole dei professori mi rimbalzavano contro come gocce di pioggia su un vetro, senza lasciare traccia. La mia mente era lontana, intrappolata in pensieri che mi opprimevano e che non riuscivo a ignorare. Becky. Cosa pensava di me? Cosa avrei dovuto fare?

Mi comportavo da idiota con lei davanti agli altri, cercando di sembrare più forte, più sicuro di me. Facevo battute, mi sforzavo di sembrare quello che gli altri volevano che fossi. Ma dentro, ero solo un ragazzo insicuro, spaventato dall'idea di mostrarmi vulnerabile.

La pausa arrivò, e mentre mi alzavo per uscire, la vidi parlare con Lily. Passai accanto a loro senza osare guardarle in faccia, ma sentii lo sguardo di Becky su di me. Non sapevo cosa fare, così accelerai il passo e mi avvicinai al mio gruppo di amici. Misi subito su la mia maschera, il ragazzo sicuro di sé, quello che non ha paura di niente. Nessuno doveva sapere cosa stavo davvero provando.

La giornata proseguì lentamente, un susseguirsi di ore vuote e pensieri ancora più vuoti. Tornai a casa esausto, ma la mia mente continuava a correre. Non riuscivo a concentrarmi sui compiti, quindi decisi di fare una pausa. Uscii in giardino, mi coprii con una coperta e presi un libro dalla libreria. Il freddo pungente mi teneva sveglio, e il silenzio intorno a me sembrava quasi confortante. Ma poi, la tranquillità fu interrotta.

Sentii la voce di mio padre chiamarmi dalla cucina: «Theo, rientra. Dobbiamo parlare».

Il tono era strano, inquietante. Un brivido mi corse lungo la schiena mentre lasciavo il libro sul divano e mi avvicinavo a lui.

Era seduto al tavolo, la schiena rigida, lo sguardo impassibile. Mi sedetti di fronte a lui, e tra di noi cadde un lungo silenzio, come se stesse cercando le parole giuste.

Poi, con voce calma ma pesante, disse: «Tuo nonno... ha avuto un infarto questa mattina. È in ospedale, ma non sappiamo se ce la farà».

Quelle parole mi colpirono come un pugno, e restai lì, paralizzato, senza sapere cosa dire. Il silenzio si fece ancora più pesante. Mio padre non aggiunse altro. Si alzò e uscì dalla stanza, lasciandomi solo con quella notizia.

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