28. Alyssa

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ALYSSA


Mi scoppia il cuore, appena vedo Blaine. 

È molto dimagrito, ma rispetto all'ultima volta che l'ho incontrato, a Times Square, è ben rasato, pulito, e indossa abiti decenti. 

Devono averglieli forniti quelli di Medicaid, o una delle associazioni di volontariato che gravitano intorno a questa utile realtà.

Mi fa una tenerezza sconfinata, con l'aria un po' sperduta che ha sempre chi lascia l'ospedale dopo un intervento importante. 

Si guarda intorno come se fosse appena uscito di prigione, timidamente estatico nei confronti della luce del sole e del semplice fatto di essere ancora vivo. 

Quando ero ragazzina mi pareva che fosse un omone grande e grosso, e forse lo era veramente e poi la vita nomade lo ha prosciugato, oppure non lo è mai stato, ed ero io a vederlo così. 

Perché da piccoli tutto sembra enorme, se non addirittura irraggiungibile, e perché avrei considerato un colosso chiunque mi avesse protetta come ha fatto lui. 

Era enorme davvero, o ero io a vederlo come Ercole?

Non lo so più, adesso. So solo che in questo giorno mi sembra piccino e con la schiena curva.
Ha sessant'anni, ormai. Ne dimostra settanta.
Ma presto starà meglio.

Un'infermiera lo ha accompagnato fino all'ingresso dei visitatori spingendo una sedia a rotelle. Mi chiede se sono imparentata con lui, e io annuisco, e gli dico che sono sua figlia. 

Così, l'infermiera mi fa il quadro esatto dello stato di salute di mio padre, mi fornisce tutte le prescrizioni mediche per la terapia che dovrà continuare a casa, e mi fa sapere che dovrà sottoporsi a controlli periodici. Per il resto, potrà condurre una vita normale, facendo dello sport aerobico leggero, come delle belle camminate all'aria aperta. L'importante è che si nutra in modo sano. Nella documentazione che mi ha dato sono anche contenute le indicazioni per una dieta adatta.

Le dico che farò tutto quello che occorre, e poi aiuto Blaine ad alzarsi dalla sedia a rotelle.

«Ce la faccio», mi dice lui.

Lo prendo a braccetto, camminiamo per un breve tratto.
Gli chiedo come sta, ma lui mi prega subito di non parlare della sua salute.

«Tutto quello che c'è da sapere lo sai già. Permettimi di riassaporare l'aria che respira chi è vivo. Sai, bambina, da quando è scomparsa la mia Lilian, questa è la prima volta in cui sono completamente felice di non essere morto. E mi sento anche un po' in colpa. Perché voglio vivere, intendo. E voglio vivere perché so che ci siete tu ed Hemingway.»

La voce gli si spezza mentre parla, e anche io mi spezzo.

Ci ritroviamo vicino al Bellevue Hospital, un anziano signore e una ragazza alti più o meno uguali, entrambi un po' male in arnese, entrambi sopravvissuti a battaglie che avrebbero abbattuto condottieri e dei, a piangere convulsamente, con singhiozzi che sembrano capaci di incrinarci la gola. 

Ci abbracciamo come farebbero un padre e un figlia che condividono la stessa carne e lo stesso sangue, anche se condividiamo molto più di questo.

La gente passa e ci osserva, e magari pensa che abbiamo ricevuto una notizia tragica, perché non si piange in questo modo per qualcosa di bello. 

Ma la gente non lo sa che abbiamo anni di lacrime inghiottite e interrotte. 

Non lo sa che piangiamo perché siamo vivi e vogliamo esserlo.
Non sa che un tempo volevamo morire, invece.
Non lo sa, e ci compatisce.

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