33. Alyssa

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ALYSSA


Prendo in fretta e furia la mia pochissima roba dalla casetta isolata nella quale mi hanno confinata per tenermi lontana dalla gente importante. 

Non mi cambio neppure, tranne le scarpe, e indosso un cappotto prima di congelarmi le ossa.

Riguardo gli orari dei traghetti, fra mezz'ora ce n'è uno.
Lo prendo un attimo prima che si stacchi dal molo.
Non guardo neppure l'isola che si allontana: non potrei, pur volendo, perché ho gli occhi pieni di lacrime.

Piango anche sul treno, per tutto il tragitto.

Ho mandato un messaggio veloce a Blaine, e poi ho spento il cellulare, caso mai a qualcuno venisse in mente che esisto, o che almeno sono esistita, e si domandasse se sono ancora viva o se sono finita nell'oceano cadendo da uno strapiombo. Oppure, chissà, l'ho spento per non scoprire che non gli è venuto affatto in mente. Magari sta ancora conversando con la sua bella Azalea e si è dimenticato di avermi condotta con sé sull'isola. Oppure si è ricordato che la vittoria della scommessa si fermava al "bacio con lingua" che mi ha dato in biblioteca, e tutto quello che è venuto dopo era inutile. Perciò, adesso può recuperare il tempo perduto.

Mi sento una vera idiota mentre macino questi pensieri.

Perché mi torturo?

Non ha alcun senso.

Io e Lukas siamo inconciliabili a prescindere dalle scommesse e dai ritorni di fiamma con le strafighe. Era una convinzione che avevo anche prima, e allora cosa mi importa se adesso il bacio con lingua lo sta dando al suo sexy fiore francese?

Alla stazione di New Haven non prendo il primo treno per Guilford. 

Vado a New York. 

Non so perché, forse perché ho bisogno del caos di quella città maledetta.
E oggi il caos sarà sicuramente triplicato. 

È appena iniziato il Black Friday, ci sarà gente ovunque, perfino più di ieri, pronta a spendere, spendere, spendere. 

Mi aspetta una full immersion totale nella terapia migliore per convincersi definitivamente di non valere un cazzo: fare un bel giro a New York, la metropoli che tutto divora e nessuno consola, il giorno successivo al Ringraziamento, senza un soldo, visto che ho speso tutto il contante che avevo per il viaggio. 

Si comincia così, no? E poi si finisce di nuovo per strada.

Appena scendo dal treno, però, mi rendo conto di una cosa. 

Voglio restare qui, nel Grand Central Terminal, e non tuffarmi tra le spire della città. C'è un certo viavai, nonostante sia notte. Ma non dove voglio andare io. Lì è più tranquillo, perché i locali sono ancora chiusi.

Raggiungo il secondo piano interrato.
Nuovi ricordi cadono e cadono, e lo spazio si riempie di Alysse bambine che chiedono cose al Dio dei sussurri.

Mi avvicino all'angolo nel quale pregavo quando ero piccola: non sapevo cosa fosse un fenomeno acustico e credevo che il modo in cui si propagava la voce avesse qualcosa di miracoloso. E che, se avessi parlato in quel punto preciso, Dio mi avrebbe ascoltata, e magari risposto.

Mi lascio scivolare a terra davanti al pilastro. 

Ecco, sono di nuovo una senzatetto pronta a dormire per terra.
Nessuno farà a caso a me, non sembro una persona dalla quale ricaveresti qualcosa, se la derubassi. 

E da qualche parte, nello zaino, ho il coltello che mi diede Sebastian tanti anni fa. La pistola è rimasta a Guilford, ma il coltello lo porto sempre con me, anche se devo andare a Martha's Vineyard per il Thanksgiving a conoscere i genitori del mio ragazzo. 

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