Non saprei dire per quanto tempo rimasi in quell'auto, osservando attentamente le strade che stavamo percorrendo, ma mi sembrò scorrere troppo lentamente.
Il posto non era male - prati verdi, alte palme e cielo di un azzurro limpido -, solo che il fatto di essere stata rapita non migliorava la situazione.
Proseguimmo lungo una strada, finché non ci imbattemmo in una specie di posto di blocco, dove delle guardie attendevano. Parlarono con il guidatore e poi ci fecero passare.
Andando avanti, non potei non notare il modo in cui le guardie si fossero moltiplicate: ce n'erano ovunque guardassi.
Se avessi anche solo provato a scappare, di certo sarei stata beccata.
La cosa mi sconfortò del previsto, e mi ritrovai a sbuffare sonoramente.
Finalmente la macchina si fermò. Una guardia mi prese per il braccio e mi fece scendere, conducendomi attraverso un cancello.
Alzai lo sguardo sulla casa bianca in cui mi avevano portata; quindi era quella la meta finale?
Una volta che si aprì la porta, incontrai subito lo sguardo di una cameriera. Mi fece entrare, senza mai togliere lo sguardo da me.
Camminai a passi lunghi e lenti, osservando le stanze e i mobili di quella casa. Notai degli oggetti che sembravano antichi, tutti fatti d'oro.
«Portala di sopra. Stanza Orinoko» ordinò una guardia, venendo nella nostra direzione.
«Da questa parte» mi prese per il braccio la guardia di prima, trascinandomi via.
«Non serve strattonare» sbuffai.
L'uomo mi scoccò un'occhiataccia, come se non mi fosse nemmeno permesso parlare.
Salimmo una scala, ma non feci neanche in tempo di dare un'occhiata in giro che la guardia mi spinse dentro ad una stanza.
