Capitolo 30 || Just a game

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Il ritorno a casa dopo la cena mi ha lasciato un vuoto nello stomaco, come se avessi lasciato qualcosa lì, in quella casa.
«Allora figliola, ti sei divertita con il ragazzino?» Indaga mio padre con un sorriso furbo sulle labbra rovinate.
«Non sai quanto, papà.» Rispondo ironica gettandomi sul divano in pelle.
Jake si lancia sulle mie gambe in cerca di coccole, e come negarle a quei occhi così dolci?
«Non è stato gentile forse? Posso rimediare con un bel pugno!» Si allarma il trentenne appoggiando una mano sulla mia spalla.
«No, papà, non è successo nulla. Solo qualche innocente bacio.» Sospiro accarezzando il morbido pelo del cucciolo comodamente disteso sulle mie gambe per metà scoperte.
«Sì e io sono Obama!» Ride di gusto l'uomo seduto al mio fianco.
«Sono seria!» M'impongo facendolo smettere di sghignazzare come una ragazzina.
«Davvero pensi che non si sia notato? Il tuo vestito è del tutto stropicciato, i capelli reggono in quella specie di palla per miracolo divino, le tue labbra sono gonfie e più rosse del solito. Il ragazzino aveva i capelli del tutto scombinati, neanche avesse messo le dita in una presa, la camicia era messa nei pantaloni per metà e i bottoni sono stati messi nelle fessure sbagliate... Bastano come prove?» Mi fa notare cose che neanch'io ho effettivamente considerato.
«Ci... Siamo fermati in tempo. Non ringrazio Laura abbastanza per averci chiamato!» Confesso alla fine con difficoltà. Jake strofina la sua testolina sul dorso della mia mano, invitandomi a continuare le mie carezze.
«Avanti Abigail, non ci credi neanche tu!» Mi incalza lui.
«Papà, ti ho già detto che non provo niente di niente nei suoi confronti, è completamente inutile che continui a insistere!» Sbuffo sonoramente. Il cucciolo alza le orecchie con uno scatto, allarmato dal mio tono di voce alto.
«Figliola, se non apri il tuo cuore non potrai mai saperlo.» Mi consiglia con tono estremamente dolce.
«Il mio cuore resterà chiuso, sto bene così, nessun fidanzato, nessun pensiero. È stato solamente un gioco.» Lo dico più a me stessa che al mio genitore, che a quelle parole mi guarda piuttosto male.
«Non è da vere donne giocare con i ragazzi.» Mi fa notare.
«Mi stai dando della puttana papà?» Lo incalzo io questa volta. Lo fisso con le sopracciglia alzate e sguardo accusatorio, attendendo una sua risposta.
«Meglio andare a letto. Buonanotte.» Lascio perdere appena lo vedo in evidente difficoltà.

***

I raggi del sole filtrano timidi dalle fessure della tapparella, proiettando la loro forma sulle mattonelle chiare della piccola stanza da letto. Uno strano odore familiare arriva alle mie narici, allarmandomi immediatamente. Sposto le coperte da sopra il mio corpo, che si ricopre velocemente di numerosi brividi. Varco la porta della stanza che mi ha ospitato per la notte e raggiungo il salotto. Jake corre verso di me salutandomi scodinzolante. Lo sposto delicatamente e raggiungo il divano nero.
«Buongiorno Ebagheil, come stai domani? Oh, oggi!» Mio padre storpia orribilmente il mio nome con voce ubriaca, e non solo. Sposto lo sguardo sul tavolo basso davanti a lui e mi disgusta vedere una quantità esagerata di droga sparsa su di esso.
«Cosa guardi? Oh, non preoccuparti, è solo zucchero!» Cerca di giustificarsi con una banale scusa. Gli occhi castani che mi guardano sono cerchiati di rosso, la pupilla dilatata al massimo e delle profonde occhiaie violacee li circondano. Il suo sguardo confuso si sposta velocemente da me al tavolo.
«Papà, ti prego, va a riposarti.» Cerco di mantenere la calma mentre studio il disordine che regna nella stanza. I due cuscini foderati di bianco del divano sono sparsi sul pavimento chiaro, il portacenere in vetro è distrutto in mille pezzi circondato dal suo contenuto grigio. I soprammobili sono riversi sulle mensole nere e le foto sono tutte abbassate tranne una: si trova nella mani tremolanti della mia figura paterna.
«Mi dispiace.» Si scusa trasportandosi barcollante in camera da letto. Osservo il porta foto sul divano, valutando se guardarne il contenuto o meno. La curiosità prende il sopravvento e afferro l'argento della cornice nelle mie mani tremolanti. Un disegno è contenuto nei quattro lati del rettangolo. Il mio disegno. A sei anni mi piaceva disegnare. Rappresenta me con i codini sorridente, con il mio ombrello giallo e verde nella mano destra. Tengo la mano sinistra alla mamma; aveva ancora i capelli biondi lunghi fino a metà schiena, era bellissima. Lei tiene l'ombrello grande rosso e giallo insieme a papà, che indossava un buffo cappello verde con il pompon sulla punta. Era una giornata uggiosa, pioveva davvero tanto. Adoravo saltare nelle pozzanghere che si formavano fra l'erba del giardino; indossavo impermeabile e stivali, prendevo l'ombrello all'uscita e correvo fuori a divertirmi tra le urla di mamma e le risate di papà.
Una lacrima scende lungo la mia guancia al ricordo di quei giorni di pioggia. La piccola goccia cristallina cade sul vetro del porta foto, in corrispondenza del volto di papà.
La riposo sulla mensola nera per evitare che i ricordi mi assalgano completamente. Raccolgo i cuscini e li risistemo sul divano, rialzo tutti i soprammobili in vetro con delicatezza e butto i resti del portacenere insieme alla polverina bianca sul tavolino.
Sbuffo sonoramente sotto lo sguardo attento di Jake e mi dirigo verso la stanza da letto. Entro silenziosamente e recupero la mia valigia rossa, buttando a terra una maglietta e un pantalone insieme alla biancheria. Risistemo tutto e esco nuovamente dalla stanza, senza disturbare il sonno pesante di mio padre. Entro in doccia, felice di poter finalmente lavarmi via di dosso tutti i problemi.

***

Sono al terzo caffè ormai, eppure la stanchezza non va via. Magari voglio illudermi che sia stanchezza fisica, magari voglio poter immaginare di poter stare meglio con un semplice liquido marrone, quasi nero.
La suoneria del mio cellulare invade per la quinta volta la mie orecchie e non posso far altro che prendere quell'aggeggio e spegnerlo, ma il nome che appare bianco sul display mi blocca.
«Pronto?» Rispondo allarmata, alzandomi dalla sedia bianca della cucina.
«Abigail, che fine hai fatto? A scuola chiedono di te in molti e noi siamo preoccupati!» La voce di Leonardo risulta squillante e fastidiosa dalla piccola cassa del cellulare, tanto da trovare il mio orecchio a quasi un metro di distanza da essa.
«Ciao anche a te Leo, "come va" hai detto? Benissimo...» Rispondo ironica risedendomi.
«O avanti Abigail, non scherzare.» Mi rimprovera preoccupato.
«Sto bene, sono a casa di mio padre. Tutto nella norma. Non so quando verrò a scuola.» Lo rassicuro fissando la parete ricoperta di pittura bianca di fronte a me.
«Tutto nella norma!? Tuo padre è un fottuto barbone!» Urla con tutto sé stesso, tanto da farmi cadere il telefono dalle mani per lo spavento.
«Tu... Come fai a saperlo?» Indago stupita una volta ripreso lo smartphone da terra.

Lunghezza capitolo: 1136 parole.

Dangerous Woman || Lorenzo OstuniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora