'Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro. Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.'
-Lev Tolstoj.Judith infilò la cartella tra gli altri fogli dello scaffale e si gettò sul letto a capofitto. La luce del tramonto filtrava delicatamente dai vetri della finestra, cospargendosi sui suoi vestiti e sul pavimento di legno. Rotolò supina e fissò il soffitto, con le travi di legno incastrate le une alle altre, immergendosi in quei colori spenti, come spenta sarebbe stata la sua vita di lì a pochi mesi.
Erano stati dei semplici esami del sangue. Judith aveva accompagnato sua madre in ospedale e poi avevano atteso i risultati. Jenna, sua madre, aveva detto che andava tutto bene, che era tutto nella norma, nessuno sballo, nessuno scompenso. Lei le aveva sorriso, sollevata.
Poi, però, le aveva trovate. Quelle carte, stropicciate, in camera di sua madre. Allora aveva chiesto spiegazione al dottore e lui non aveva voluto dirglielo. 'Serve un consenso da parte di sua madre' era stata la giustificazione. Così, Judith aveva mostrato quelle dannate carte a sua madre e lei era stata costretta a vuotare il sacco. Aveva visto i suoi occhi azzurri scurirsi e riempirsi di lacrime, le sue mani tremare quando se le era premute sul viso per nascondere il pianto. Judith era rimasta immobile, in piedi, con i risultati delle analisi stretti tra le dita. Leucemia, aveva detto. Acuta. Si era sentita il pavimento sprofondare sotto i piedi, si era sentiva mancare il fiato e un freddo pungente l'aveva avvolta, sommergendola. Poi aveva afferrato la mano di Jenna ed erano uscite fuori, nel giardino, ad osservare il sole tramontare oltre le colline.
'Ti voglio bene, Judi' le aveva detto senza guardarla, con la voce rotta dal pianto.
'Te ne voglio anch'io' aveva risposto Judith, stringendole le dita. 'Avresti dovuto dirmelo.'
A quelle parole, sua madre non aveva risposto nulla. Era rientrata in casa e lei era corsa nella sua stanza, dove aveva pianto, per tanto tempo. Aveva ricordato i capelli di sua madre, così lunghi e folti, così belli, illuminati dalla luce del sole, e poi la gonna a fiori che indossava. Era così che l'aveva sempre vista: come un fiore, di quelli belli, che non appassiscono mai. Ma si era sbagliata. Lei si sbagliava sempre. Da quel giorno di due settimane prima, Judith si era ripromessa di non versare più una lacrima, per evitare che sua madre si rendesse conto di quanto quel destino sembrasse vivido e terribile.Il ricordo di quel giorno le squarciò la mente, arrivando a farle venire mal di testa. Si sollevò a sedere, portandosi le dita a massaggiarsi le tempie, e osservò il sole calante, oltre il vetro della finestra. Marzo. Il mese della primavera, della fioritura. Fece una smorfia amara, mentre la voce di sua madre, dal piano inferiore, gridava il suo nome.
Judith si alzò di scatto, ignorando l'emicrania, e rischiò di inciampare nelle scarpe da ginnastica gettate alla rinfusa sul pavimento.«Mamma!» urlò, precipitandosi lungo le scale e spalancando la porta della cucina. Trovò la donna in piedi, davanti al fornello, con un mestolo in mano.
Si voltò a guardare sua figlia e sussurrò:
«Mi prenderesti quella pentola, lassù in alto? Non ci arrivo.»
Judith chiuse gli occhi, deglutendo e rilasciando il respiro che aveva trattenuto per alcuni istanti. Aveva temuto il peggio.
«Certo, mamma.»
Si issò sulle punte dei piedi e afferrò la pentola, porgendogliela con le mani ancora attraversate da un lieve tremolio.
«Tesoro... » sua madre allungò un braccio e le sfiorò una guancia, con espressione confusa. «Stai bene?»
Lei la guardò, il labbro inferiore che tremava. Non se ne era accorta.
«S-sì... sto bene» farfugliò, stringendosi le braccia contro il petto per placare quel batticuore.
«Mi aiuti con la cena?» propose la donna con dolcezza, regalandole un piccolo sorriso. Judith adorava quando sorrideva così, come se la malattia non l'avesse ancora sfiorata, come se fosse tutto come prima. Era fiera di lei, per riuscire a combattere in quel modo, lo era sempre stata.
«Certo» rispose, mentre il disagio finalmente scemava altrove. Spostò una ciocca bionda dietro il suo orecchio e le sorrise, baciandola sulla guancia.
«Che cuciniamo?»Dopo aver apparecchiato, sua madre si era seduta in poltrona e ora guardava uno stupido programma sulla ristrutturazione delle case, in tv.
Judith aspettava con le braccia incrociate e la testa appoggiata contro il vetro della finestra. Era una sera tranquilla, come sempre, con il cielo trapunto di stelle, schizzi bianchi su di una tela blu scuro. Una volta aveva dipinto un panorama così, ma era prima, prima di tutto quello, prima che l'oscurità piombasse nella sua vita. L'unico soggetto che fosse in grado di ritrarre, adesso, era sua madre. Non lo aveva mai fatto prima. Adesso, la ritraeva di continuo, in qualunque posa, anche naturale, per imprimersi nella mente e nei tempi a venire, la sua bellezza candida, angelica. Per lasciare una traccia di lei nel mondo, in modo che tutti la ricordassero, o la conoscessero. Sua madre non si era mai chiesta perché lo facesse. E forse, aveva capito lei, era meglio così.La luce dei fari si diramò nel vialetto, illuminando prima la strada e poi sollevandosi verso l'esterno della casa. Gli occhi di Judith si allargarono. Si volse verso sua madre, a quanto pare presa dal programma in tv.
«Papà è tornato.»
La donna sorrise, ma non la guardò. In quel momento si udì un rumore di passi nel corridoio esterno, e un attimo dopo quello delle chiavi che armeggiavano nella serratura. Suo padre, John Wilson, entrò in casa, sbattendosi la porta alle spalle. Come al solito, Judith corse a gettarglisi tra le braccia e lui la accolse dolcemente, dandole un bacio leggero sui capelli.
«Come sta oggi?» le chiese sussurrando.
«Come sempre, papà» rispose lei, abbassando lo sguardo.
Gli occhi di John erano identici ai suoi, del colore del miele, eppure in quel momento apparivano più scuri, forse per via della penombra che regnava nel corridoio. Si lasciò scivolare il cappotto di dosso e lo appese al gancio affisso nel muro, per poi oltrepassare la figlia e dirigersi verso la moglie, di cui vedeva solo i ciuffi biondi spuntare dal retro della poltrona.La prese di sorpresa -non letteralmente, dal momento che lei sapeva già che fosse rientrato- e le sfiorò la guancia, per poi chinarsi a deporle un bacio sulle labbra. Judith restò nel corridoio, con la spalla premuta contro lo stipite della porta, ad osservare la scena con un sorriso amaro. Anche tutto quello, l'amore dei suoi genitori, l'immagine di sua madre seduta su quella poltrona consunta, il bacio che suo padre le dava sempre quando rientrava dal lavoro, sarebbe svanito in pochi mesi. Avvertì un groppo chiuderle la gola, ma trattenne le lacrime, deglutendo e inspirando a fondo.
La cena era pronta in tavola.
Sua madre aveva optato per un pollo arrosto con contorno di verdure, il suo piatto preferito, ma nessuno sembrava ricordarsene, così toccò a lei.Si schiarì la gola, avvicinandosi lentamente ai genitori e posando una mano sulla spalla di suo padre.
«Ceniamo, o quel pollo diventerà immangiabile.»
Sentì una risata sommessa provenire dal basso e capì che apparteneva a sua madre.
«Ha ragione» disse infatti, accarezzando la guancia del marito.
«Andiamo a mangiare.»
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Judith ― il Marchio.
Mystery / ThrillerJudith è solo una bambina quando qualcosa prende possesso del suo corpo. Nessuno vede, nessuno sa. Pochi giorni dopo viene ritrovato un diario, all'apparenza molto vecchio, su cui è stata trascritta la prima parte della sua giovane vita, un diario...