8.

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Sul foglio che Dave le aveva lasciato era stato scritto anche il suo numero di cellulare. Judith afferrò il proprio e digitò i numeri, aspettando poi che lui rispondesse. Quando udì il suo pronto, un'ennesima scarica elettrica le attraversò lo stomaco. Di nuovo, fu portata a sorridere.

«Dave!» rispose lei, tentando di domare l'emozione nella voce. «Non mi hai detto dove dobbiamo incontrarci, perciò sono fuori casa e mi ritrovo un po' spaesata. »
«Stai tranquilla, rimani lì. Sto arrivando. »
E riattaccò. Judith richiuse il telefono, fissando lo schermo trasmettere il segnale di chiusura della chiamata, e si diresse verso una panchina, dove si sedette. Era primo pomeriggio e il tempo non era dei migliori, considerando che il giorno precedente aveva piovuto.
L'aria era ancora satura di umidità; un leggero brivido salì lungo la sua schiena.
Era talmente eccitata al pensiero che entro pochi minuti avrebbe rivisto Dave, che le sue mani avevano cominciato a sudare. Il cuore aumentava di palpitazioni e frequenza ogni secondo che passava, finché una voce, all'improvviso, non vibrò nell'aria facendola quasi sobbalzare.

Sorrise, nel riconoscerne in Dave il proprietario. Si alzò di scatto, sfoggiando un sorriso che avrebbe voluto nascondere a tutti costi, ma fu impossibile. In uno slancio non pianificato e del tutto inaspettato, Dave l'abbracciò. Lei si lasciò travolgere da quel gesto, affondandogli inconsciamente il viso nella spalla. Restarono così, avvinghiati l'uno all'altra, per un tempo infinito. Dave sentiva l'odore muschiato dei capelli della ragazza, una fragranza che gli inondò le narici, inebriandolo e mandandolo in estasi; Judith avvertì il respiro caldo di lui sulla pelle, beandosi del calore del suo abbraccio. Si sentiva protetta, al sicuro, bene. Per quegli istanti che parvero interminabili il mondo si fermò, e lei pensò che non le sarebbe servito altro per essere felice. Dimenticò sua madre e quella maledetta malattia, dimenticò John Wilson, i suoi dipinti, la sofferenza, immergendosi semplicemente nella magia di quel gesto che, inconsciamente, aveva desiderato dal primo momento in cui aveva posato gli occhi su Dave. Allora la cosa le artigliò l'intestino, le budella, e le strinse con ferocia, e Judith urlò, ma quel grido non uscì dalla sua bocca, e dalle labbra proruppe solo un suono leggero.

«Mi dispiace... », mormorò Dave, allontanandosi lentamente e guardandola negli occhi. «Non sono mai stato troppo espansivo, a dire il vero, ma con te è diverso.»

«Non devi chiedermi scusa, Dave», lo interruppe lei, dolcemente. «Non hai fatto nulla di sbagliato.
La cosa sibilò piano.
Lo vide sorridere, scrutarla intensamente dietro agli occhiali dalle lenti appena appannate dall'umidità e sorrise a sua volta. Dave la superava in altezza di una decina di centimetri, cosa che la fece sentire piccola ma al tempo stesso anche protetta.
Il bisogno e l'urgenza di imprimersi nella mente ogni dettaglio del suo viso erano paragonabili a fiamme ardenti che nemmeno un alluvione avrebbe potuto estinguere. Voleva, doveva, ricordare anche il più inutile particolare di quel ragazzo; la cosa che la sconvolgeva era il non riuscire a spiegarsene la ragione. Del resto, lei era un'artista, ricordare ogni particolare del volto di qualcuno era parte del suo mestiere.

«Allora», disse stringendosi nelle spalle, «dove andiamo?»

«Dove vuoi. Devo mostrarti una cosa. »
Adesso, mentre parlava, Judith si accorse che il suo timbro di voce era cambiato: sembrava teso, nervoso, come non si sarebbe di certo aspettata dopo essersi scambiati un abbraccio tanto... intimo.

«Che succede, Dave?»
Gli appoggiò una mano sul braccio. «Ti vedo preoccupato. »
Lui si grattò il collo, assumendo un'espressione ansiosa; era teso come le corde di un violino. A quel punto Judith fu colta da un senso di panico, che si riversò anche nel suo tono di voce.

«Dave», sussurrò avvicinandosi, «parla.»

«Sediamoci, Judith», indicò la panchina di cui poco prima era stata seduta lei.
Dalla borsa a tracolla a cui Judith, inizialmente, non aveva prestato attenzione, estrasse il quaderno che le aveva mostrato il giorno precedente. Glielo porse con mani tremanti, fissandola intensamente negli occhi e provocandole un gelido brivido lungo la schiena.

«Aprilo.»
Confusa, Judith afferrò l'oggetto e obbedì. Trascorse alcuni secondi a sfogliare le vecchie pagine, poi, sollevando lo sguardo verso il ragazzo, schiuse le labbra.

«Non capisco», scosse la testa. «Mi sembra tutto apposto.»
Dave deglutì, mandando giù un enorme dose di angoscia.
Appoggiò le proprie mani sopra le sue e le guidò fino all'ultima pagina scritta del quaderno.

«Non lo vedi?», mormorò, «leggi, Judith.»
Lei lo fece. Lentamente, confusamente, meticolosamente.
Quando i suoi occhi si posarono sulla pagina che Dave stava indicando, uno spasmo attraversò e contrasse le sue mani, quelle che lui stava stringendo nelle proprie.

« 'Domani, alle tre' », lesse col fiato sospeso. «Non me ne vado, Judith. Puoi contarci.' »
Rabbrivì, ma stavolta la reazione non era dovuta al freddo di quel pomeriggio post pioggia, bensì alla impossibilità della situazione che si trovava davanti.

«Dave... Che cosa... » La cosa la fece stare zitta.
«Non capisco.» Dave si schiarì la voce, tornando a rivolgerle uno sguardo serio. Non era più quello dolce che l'aveva tanto affascinata: adesso era preoccupato e quasi, avrebbe osato pensare, terrorizzato.

«Dove hai lasciato il foglio con il mio messaggio?», le domandò, facendosi più vicino a lei sulla panchina. Judith sentiva il suo respiro irregolare, le sembrava di riuscire ad ascoltare perfino il battito del suo cuore nelle orecchie. L'inquietudine di Dave si stava trasmettendo, pian piano e inesorabilmente, anche su di lei.

«Nella mia borsa, è qui... »
Fece scattare i bottoni dell'oggetto e rovistò all'interno, sotto lo sguardo attento di Dave.
«Non è possibile.»
Judith scosse violentemente la testa, slacciando l'altra mano dalla presa di lui e rivoltò la borsa, scuotendola con violenza.

«Era qui... Dave, l'ho lasciato qui dentro. Me lo ricordo perfettamente.»
L'espressione di Dave non mutò di una virgola. Continuava a guardarla in silenzio, con il sangue che gli pulsava ritmicamente in corrispondenza delle tempie. Incontrò gli occhi di Judith, si accorse di quanto fremessero per il disagio, e si costrinse a ricacciare indietro il nodo che sentiva chiudergli la gola.
«Magari lo hai dimenticato a casa... »
«No, no, Dave!»
La voce di lei salì di tono, le ultime sillabe cedettero alla forza dell'angoscia, diventando solo effimeri suoni strozzati. La cosa le rifilò un pugno nelle costole.
«Judith», la chiamò lui in un soffio, sporgendosi verso di lei e prendendole nuovamente le mani nelle proprie. «Respira, ti prego.»
Judith ci provò, ci provò fino allo stremo delle forze, ma quell' evento a cui aveva appena assistito la stava sconvolgendo, consumando man mano che il tempo passava ogni più piccola e recondita parte del suo essere. E la cosa non era d'aiuto.
«Come posso stare calma? Dave, non è possibile... Non è possibile
«Lo so», asserì lui con determinazione.

«Devo scoprire cosa sia successo. E tu mi aiuterai, ma solo se lo vuoi.»
Judith avvertì di nuovo quella fitta, dolce e lancinante, allo stomaco e capì che lo avrebbe fatto anche se lui non glielo avesse chiesto.
«Certo che ti aiuterò, Dave. Ci sono dentro quanto te.»
Stavolta, la cosa non fiatò.

Judith ― il Marchio. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora