12.

131 23 13
                                    

Tic, tac.
Tic, tac.
Un orologio, forse una sveglia. Quelle stupide lancette che producevano il rumore più stridulo e fastidioso che avesse mai sentito.
Alicia Torres sollevò la testa con fatica, osservando l'oggetto con disprezzo. Era attaccato alla parete ricoperta di ragnatele, un piccolo arnese che scandiva il tempo da almeno due giorni e che non l'aveva fatta chiudere occhio. Come avrebbe potuto, comunque? Dormire era l'ultimo dei suoi pensieri. Cercò di distendere le gambe davanti a sé ma si rese conto con orrore che adesso, al posto delle gambe, aveva due tronchi rigidi.
Come quando era stata rapita, il cuore cominciò a martellarle nel petto. Sentiva le dita rattrappite, le forze che venivano meno ogni istante che passava. Niente cibo da due giorni, solo acqua. Sopra di lei, una lampadina impolverata, appesa a un cavo, penzolava dal soffitto, illuminando discretamente il centro della stanza. Ci aveva messo del tempo per abituarsi a quella luce e, una volta che gli occhi erano riusciti a rimanere aperti, aveva messo a fuoco la stanza e i pochi oggetti che la popolavano: un letto, più precisamente una specie di giaciglio ricoperto di paglia e vecchie lenzuola sgualcite; in un angolo buio, uno specchio all'apparenza vecchio di anni e attraversato trasversalmente da un paio di crepe e vari contenitori di detersivi per lavatrice. Una lavanderia, aveva pensato in un primo momento, ma se lo fosse stato a cosa servivano lo specchio e il letto di paglia?

Alicia aveva accantonato quell'idea e si era concentrata sul capire perché qualcuno l'avesse sottratta alla sua famiglia e perché nessuno si fosse ancora fatto vivo in quella piccola prigione. Ma non era arrivata ad alcuna conclusione, forse perché, fondamentalmente, non c'era nessuno a cui stesse a cuore la sua salvaguardia.

L'emicrania era cominciata un paio d'ore prima e non accennava a voler passare. Alicia si massaggiò le tempie, ancora una volta, e nel farlo le manette che le stringevano i polsi attaccate alle catene, tintinnarono.

Serrò le labbra per impedirsi di piangere. A cosa sarebbe servito piangere, in quella dannata situazione? La cosa giusta e razionale da fare era mantenere la lucidità. Anche se era difficile, molto. Abbassò lo sguardo sulle proprie gambe nude, ormai diventate rigide a causa della posizione, e contrasse la mandibola; quelle maledette scritte erano ancora lì.

"Adrian Cleverand, Creatore" era inciso sulla pelle pallida e ricoperta di piccole abrasioni, della coscia destra.
"Alicia Torres, Creatura" sulla coscia opposta. Non sapeva cosa diavolo significassero quelle parole, sapeva solo che qualcuno, mentre lei era priva di sensi, gliele aveva marchiate sulla pelle. Dalle incisioni, infatti, il sangue si era solidificato e ora era raggrumato in orridi riccioli rosso scuro.

Alicia strinse i denti, appoggiando la testa contro la parete sporca alle sue spalle.
Devo trovare il modo di liberarmi, pensò per l'ennesima volta, mentre le immagini, nella stanza, tornavano a confondersi come era già successo quando la fame aveva cominciato a farsi sentire.
Provò ancora a far forza sulle manette, ma un dolore lancinante ai polsi la indusse a desistere.
«Maledizione!», imprecò affondando il viso tra le mani irrigidite.

«Non fare così, piccola Alicia», ringhiò una voce nella semioscurità degli angoli della stanza, «ti ho già detto che tra poco non sarai più sola e avrai una nuova compagna. Devi solo pazientare. E stare zitta.»

Judith ― il Marchio. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora