17.

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Aveva sentito i passi, al piano di sopra. Passi sul principio mossi da una losca agitazione, piccoli e rapidi. John Wilson aveva intuito, nel suo stato di semi incoscienza, che non dovevano appartenere ad una singola persona; erano un paio, forse tre. Erano arrivati appena qualche minuto dopo che l'assassina lasciasse la villetta, dopo aver ucciso sua moglie, aver ridotto lui ad un ammasso informe di carne umana e averlo trascinato nel seminterrato. John sperò con tutto se stesso che sua figlia non fosse già rientrata, sperò che avesse tardato e che sarebbe rimasta fuori per la notte, anche senza dire niente a nessuno, lui non l'avrebbe rimproverata, non lo avrebbe fatto. Lui voleva che Judith non vedesse, voleva tenerla al sicuro. Voleva che si salvasse. Judith era tutto ciò che gli rimaneva. Quella donna aveva spezzato la vita di sua moglie, e lui, dovunque sarebbe andato una volta morto, l'avrebbe maledetta. In eterno.

Jenna era malata, era destinata, eppure la crudeltà, la brutalità, con cui il pugnale si era conficcato nel suo petto era stata uno spettacolo traumatico, disumano, che lo avrebbe accompagnato fino all'ultimo dei suoi respiri.

John Wilson digrignò i denti quando l'ennesima fitta lo colpì alla gamba destra, che, dal ginocchio in giù, non esisteva più. L'assassina gliel'aveva troncata di netto, in un solo, famelico colpo. Poi lo aveva guardato negli occhi, sbattendogli in faccia un sorriso sadico, ma amaro, come se si stesse costringendo a gioire del proprio lavoro ma in fondo qualcosa la turbasse. Non si era presa il disturbo di ripulire. Naturale, quale assassino lo avrebbe fatto, sapendo di avere i minuti contati?

Lo sguardo di John si affievolì ancora un po', mentre abbandonava la mano accanto al fianco, lasciando la presa sul lembo di camicia che aveva usato per tentare di bloccare l'emorragia. Quel tentativo, comunque, non era stato sufficiente.
Sentiva le forze dissiparsi rapidamente, la vista appannarglisi come se un velo opaco gli si stesse calando davanti agli occhi. Stava morendo, lo sapeva. Sotto di lui, solo una pozza di sangue scuro e denso che si espandeva a vista d'occhio lungo le piastrelle del pavimento. Respirare era la cosa più faticosa. Lo invase un grande terrore, come mai ne aveva conosciuto. I secondi passavano in uno stillicidio; non era quasi più in grado di muoversi.

Con un ultimo sforzo allungò il braccio tremante verso il tunnel d’ombra dietro al vecchio materasso che aveva deposto lì anni prima, qualche mese antecedente al diploma di Judith, ed estrasse la pistola. Una Glock 19, quella che per tanto tempo gli era stata a fianco durante la sua permanenza all'interno dell'FBI ma che, dopo la nascita di sua figlia, era stato costretto ad abbandonare. Un agente che diventa padre è spesso un ottimo bersaglio per un serial killer. John aveva fatto una scelta, quella di proteggere la sua famiglia, ma in quel momento realizzò quanto tutti gli sforzi che aveva compiuto fossero adesso effimeri, inconsistenti.
Il sudore rese scivolosa la sua presa sulla pistola.

Deglutì, mandando giù la bile che gli era salita in gola, e in quel momento la porta dello scantinato produsse un cigolio. Qualcuno la stava aprendo. John sollevò lentamente lo sguardo, nascondendo la pistola dietro la schiena, mentre una voce maschile, profonda e gutturale, si levava da sopra la scalinata.

«Signor Wilson?»
Attese qualche istante prima di aprire la bocca. Un suono flebile, roco, lasciò a fatica le sue labbra.
«S- sono… qui.»
«È qui. Cazzo, è qui! Dave, Judith!»
La voce maschile si fece più alta, più tonante.
John rimase interdetto, il respiro sempre più ansante, il sangue, viscoso, che non accennava a rallentare il ritmo nello scivolare sul freddo pavimento. Judith. Sua figlia era lì. Non sarebbe dovuta andare così, lei non doveva vedere, non doveva…
Sembrarono trascorrere minuti prima che John, ormai quasi in totale incoscienza, riconoscesse gli stivali marroni di sua figlia, accanto al suo corpo. La vide inginocchiarsi, scorse il tremore accompagnare i suoi movimenti e in quel momento desiderò piangere e dare sfogo al proprio tormento interiore.

Ma non lo fece.
Non ci riuscì.
Non ne ebbe la forza.
Non riconosceva quasi più il suo viso, la cui fisionomia era celata dal diorama di ombre proiettate dalla luna, fuori dalla piccola finestrella. Incontrò gli occhi di Judith, che una volta erano dello stesso caldo color miele dei suoi. Adesso erano neri, cupi, e a John ricordarono orbite vuote in un teschio. Se avesse ancora avuto un qualche accenno di forza sarebbe rabbrividito. Non sembrava nemmeno sua figlia. Sembrava un'intrusa, lontana anni luce da quella che era sangue del suo sangue.
Eppure sapeva che, sotto le sembianze di quell' essere fragile, coperto dalle ombre, c’era Judith. Era ancora lì, da qualche parte.
E lui stava morendo.

Le mani della ragazza si accostarono alla sua, abbandonata e ormai priva di vita, e strinsero appena. Poi Judith si chinò verso il suo volto pallido e scarno, e le sue labbra si adagiarono tremanti contro la fronte dell’uomo.

Fu lì, alla fine, che Judith parve tornare a provare qualche emozione. Scoppiò in un pianto silenzioso, il suo volto si contrasse negli spasimi della sofferenza, e lacrime calde gocciolarono contro le guance quasi completamente gelide di John.
Non le sfuggì alcun gemito, nessun singhiozzo, nemmeno il più debole.
Si sentiva incapace di produrre suoni tanto quanto fosse in grado di formulare i pensieri. La paura, un essere informe e scuro, le appannò la vista, catapultandola in una dimensione di totale blackout.
Provò a parlare, ma non ci riuscì.

A quel punto, cosciente della morte che si faceva sempre più vicina, John estrasse la pistola da dietro la sua schiena. Il rumore metallico che essa provocò quando le dita tremanti dell’uomo la lasciarono cadere sul pavimento, parve destare Judith dal suo stato di immobilità. Abbassò lo sguardo sull’oggetto, poi lo riportò su suo padre.

«Pren… dila… J… Judith… » esalò in fin di vita. Judith notò la sua bocca, adagiata in una posizione innaturale, spalancata per metà, e seguì la traiettoria del suo sguardo verso un punto indefinito, alle sue spalle. Prima che i suoi occhi si immobilizzassero definitivamente, John Wilson ripeté in una sequenza di suoni quasi incomprensibili: «Prendila… t… ti… prego… »

Judith lo fece, tremando, tra le lacrime e, quando guardò di nuovo suo padre, ciò che si ritrovò davanti, ad appena un paio di centimetri dal viso, furono i suoi occhi.
Ormai, chiusi.

In seguito desiderò aver sfogato il proprio dolore. Desiderò aver urlato, pianto, essersi disperata. Ma in quel momento, quando si rese conto che il sangue di suo padre le aveva inzuppato completamente i jeans,  tutto ciò che fece fu accasciarsi sul pavimento, come abbandonata a uno svenimento. Ma non lo fece: rimase vigile, ad occhi chiusi, avvinghiata al corpo senza vita di John Wilson.
Un vero peccato, pensò la cosa.

Non avrebbe saputo dire per quanto tempo rimase in quello stato. Avvertì solo il vuoto mentale, e poi un tocco, delicato, sulla spalla.
«Ti porto via di qui. »

Judith ― il Marchio. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora