9.

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«Devo tornare da mia madre.»
Dave avvertì l'inquietudine di Judith, non ancora del tutto svanita, nella sua voce che gli arrivò alle orecchie solo interminabili istanti dopo che lei ebbe parlato.
Mentre si prendeva la testa tra le mani e abbassava lo sguardo sul marciapiede, capì che Judith doveva essere allontanata da tutto quello il prima possibile. Come diavolo gli era saltato in mente di trascinarla con sé in quell'impresa assurda? 'Sei un idiota, Dave Mulligan, un perfetto e inesorabile idiota.' Era stato un impulso partito dal suo cervello, che gli aveva attraversato le labbra prima ancora di capire che non sarebbe stato saggio condividere con Judith il proprio tormento.

Un vento gelido, a dispetto della stagione primaverile, si abbatté sul quartiere, investendo i corpi dei due ragazzi seduti su quella scarna panchina, entrambi con le teste chine. Non osavano guardarsi, non osavano fiatare, tantomeno riprendere l'argomento. Era assurdo, semplicemente, inspiegabile. Come poteva essere accaduto?
Quando Dave, quella mattina, aveva aperto il quaderno e, sfogliandone le pagine, si era accorto che quella che aveva dapprima strappato e lasciato a Judith era tornata al suo posto, senza nemmeno un segno di ricucitura, si era sentito sbattere contro una parete di dubbi e perplessità che lo avevano gettato nel panico più assoluto. Come accidenti ci era finita, lì, quella dannata pagina?

Si era prospettato un appuntamento normale, passato in compagnia di una ragazza normale ma speciale, verso la quale sentiva un attaccamento morboso. Invece, quello che sarebbe dovuto essere un giorno come tutti gli altri aveva preso una piega diversa, una consistenza macabra e surreale.
Dave non capiva, non se lo spiegava. Ma, del resto, chi sarebbe stato in grado di dare un senso a un simile fatto?

Era tutto talmente assurdo che pensò di esserselo immaginato. Invece no, sapeva perfettamente che la stessa pagina che aveva lasciato a Judith, strappata e sfilacciata, ora era di nuovo al suo posto nel quaderno.

«Mi dispiace, Judith» sussurrò con un gesto sconsolato del capo. «Doveva essere un appuntamento coi fiocchi, maledizione, e invece ho rovinato tutto.»
Si scansò una mano dal viso e lo girò appena verso di lei, il giusto necessario per scrutare il suo profilo.
«Judith... »
Si sentiva così completo quando pronunciava quel nome. Era come un nettare di cui aveva bisogno di nutrirsi continuamente.
«Non è colpa tua» rispose lei, accavallando le gambe e sporgendosi in avanti con il busto. «Non è colpa di nessuno. È solo un brutto malinteso.» Anche adesso, la cosa stava zitta.
«Malinteso?» ripeté Dave, confuso. «Judith, lo hai visto con i tuoi stessi occhi. Non si tratta di un malinteso, significa qualcosa.»
«Non significa niente, Dave!» La cosa schiuse le labbra.
La sua voce salì di tono, ancora una volta, e il ragazzo poté percepire la paura e il turbamento incrinarla al punto da renderla irriconoscibile.
«Non deve significare niente, perché è qualcosa di letteralmente impossibile. E spero che non sia stato tu a riprenderti quella maledetta pagina e a riattaccarla per farmi uno scherzo, perché ti rispedirei da dove sei venuto in meno di un battito di ciglia.»
Un'espressione scioccata comparve sul volto di Dave, mentre si rendeva conto del peso di quelle parole, del tono cinico e quasi sprezzante che decorava il suo tono di voce.
Fece per prenderle le mani, ma lei si scansò.
«Judith, ti prego. Pensi davvero che avrei potuto fare una cosa del genere?»
Le labbra di lei avevano preso a tremare e, quando il respiro ne fuoriuscì per poi perdersi nell'aria, si schiusero leggermente.

«No, Dave.»
Stavolta il timbro era più fermo e deciso, più comprensivo.
«Mi dispiace, non volevo attaccarti... io n-non so che cosa stia succedendo, non riesco a spiegarmelo e sono... spaventata.»
'Spaventato' era l'aggettivo più adatto a spiegare anche lo stato d'animo di Dave, lo era a tutti gli effetti, eppure non poteva esternarlo.
«Lo capisco» disse in un soffio, avvicinandosi.
«E credimi, Judith, se avessi saputo che avrei scatenato questa reazione da parte tua non te ne avrei mai parlato. Non era mia intenzione, davvero. Tutto ciò che volevo era renderti partecipe... » si bloccò, deglutendo la tensione che gli si era agglomerata in gola. «Tu sei lei, la mia lei. Non ho potuto farne a meno.»

Quelle parole provocarono un suono strozzato da parte di Judith, un suono che sarebbe potuto essere riconducibile a un fremito di piacere trattenuto a stento. Ma poi il piacere si trasformò in astio, e la cosa strappò in brandelli un pezzo del suo polmone destro. Judith sorrise largamente, un sorriso innaturale prodotto per nascondere il dolore, che nessuno percepiva a parte lei. Dave allungò una mano a sfiorarle una ciocca ribelle che sfuggiva alla sua treccia, e questa volta lei si lasciò accarezzare. La vide abbandonarsi contro la sua mano, affidarsi completamente al suo tocco come fosse stata un'ancora di salvataggio, e Dave la scaldò, lentamente, in un nuovo abbraccio. Ispirò il sapore dei suoi capelli d'ebano, nutrendosene ancora una volta, e poi vi affondò il volto mentre le braccia di Judith gli circondavano il collo, selvaggiamente.

«Ho paura, Dave» mormorò contro il suo petto, di cui sentiva l'odore muschiato. «Ho così tanta paura che mi sta sommergendo. Finirà per uccidermi, se non la fermo, lo sento.»
Dave la strinse più forte a sé, per dare al proprio corpo rigido la concretezza di cui lei aveva bisogno, chiudendo gli occhi e accarezzandole l'altra guancia con il dorso della mano.

«Non ti succederà niente, Judith. Andrà tutto bene. Farò delle ricerche e scoprirò chi ha rimesso quel foglio nel mio quaderno. Ma tu devi stare tranquilla e non raccontare a nessuno dell'accaduto... nemmeno a tua madre.»

Judith scoppiò in un singhiozzo disperato, un'esplosione che aveva trattenuto troppo a lungo, e gli strinse tra le dita il maglione di cotone, che il cappotto leggero aveva lasciato scoperto.
«Non potrei parlargliene nemmeno se volessi o ne avessi la forza.»
La sua voce venne percepita a stento, spezzata da una venatura di dolore che sconvolse Dave più di quanto già non fosse.

Si staccò da lei, appena un po'. La guardò dritta in quegli occhi che gli erano penetrati fin dentro l'anima, ma lei non ricambiò lo sguardo. Il suo esile corpo, scalfito da quella smisurata mole di sofferenza, sarebbe potuto essere abbattuto dal più misero dei mali del mondo. Dave si sentì in dovere di proteggerla, senza sapere il perché, senza riuscire a dare un senso al suo spropositato desiderio di prendersi cura di lei.

«Judith... » sussurrò appena, pronto ad assorbire tutto il dolore che lei stava trattenendo tra le maglie di metallo della sua armatura invisibile.
«Mia madre sta morendo, Dave.»
La cosa ringhiò. Sta zitta, cretina, devi stare zitta.
Un fremito percorse di nuovo le labbra della ragazza, avvinghiandosi alle orecchie di lui come artigli di una bestia affamata.
«È malata... così tanto e così dannatamente malata... »

Judith si portò una mano alla bocca per soffocare lo scorrere dei propri singhiozzi e si gettò tra le sue braccia, ancora e ancora.
Finché Dave non prese coscienza di quelle parole.
Finché la consapevolezza del dolore e l'ingiustizia cui la vita aveva sottoposto Judith non lo colpì.
Lo ricevette come il colpo di un pugile, un pugno violento nello stomaco che lo distrusse, pezzetto dopo pezzetto, senza pentirsene e fermarsi mai. Capì che non era solo del fatto inspiegabile che lei aveva timore, ma anche del futuro, di come sarebbe stato il mondo dopo che sua madre se ne sarebbe andata, di come avrebbe affrontato la vita, di come sarebbe andata avanti. 

E fu in quel momento, mentre stringeva la ragazza tra le braccia e mentre il vento gelato di marzo si avventava su di loro, che Dave condivise per la prima volta e per sempre quel martirio che Judith sopportava da tutta la vita.






Judith ― il Marchio. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora