19.

166 23 9
                                    

Nota autrice: non so come alcuni lettori prenderanno ciò che viene trattato in questo capitolo, perciò dico subito che si tratta di un argomento molto delicato e che ho cercato di esaminare al massimo della delicatezza.

*

Gli occhi di Alicia si spalancarono d'improvviso, per la seconda volta. Buio, un fitto e dannato buio, a circondarla. Non aveva la cognizione del tempo, non aveva idea di che ore fossero o di quanti giorni fossero trascorsi dal suo rapimento; non avrebbe saputo dire se fosse notte, nonostante l’incubo da cui si era appena risvegliata, perché sarebbe potuta crollare in qualsiasi momento della giornata.
Aveva sognato di essere accoltellata, di nuovo, e pensò con estrema consapevolezza che il fatto si sarebbe potuto avverare.

Stordita, si passò una mano sudicia sopra agli occhi. Il puzzo stantio della piccola cella in cui era rinchiusa si era ormai rabbonito ed ora Alicia lo sentiva su di sé come una seconda pelle. Così come l'odore di sangue e di morte e di deterioramento.

La sua condizione mentale era in serio rischio di crollo definitivo.
Le immagini si confondevano davanti ai suoi occhi, assumendo ogni volta forme e modelli differenti, e più di una volta le era parso di scorgere, nella fitta oscurità, il bagliore luminoso di un paio di occhi. Allucinazioni, aveva pensato, cercando di non cedere alla disperazione. Una volta il suo psicologo glielo aveva detto: ‘è possibile che, in condizioni di spossante stanchezza fisica e psicologica, l'individuo corra il rischio di incappare in una serie di spudorate allucinazioni.’

Alicia lo ricordava perfettamente, soprattutto il tono con cui il dottore aveva pronunciato quelle parole; era stato teso, nervoso, ansioso. Come se la questione gli stesse molto a cuore, ma lei il motivo non lo aveva capito.

Adesso, comunque, non c'era uno psicologo in grado di risollevarla da quel maledetto stato di immobilità confusa e catartica in cui si trovava. Aveva sciorinato una serie lunga quanto un chilometro di imprecazioni e improperi, e domande che dessero una risposta al dannato motivo per il quale quella orribile donna l’aveva sottratta alla vita, alla luce del sole, al mondo fuori da quella putrida prigione. Non era giunta, com’era ovvio, a nessuna, stupida soluzione.

Abbassò lo sguardo sulle proprie gambe, dove i tagli, che la donna aveva accuratamente ripulito dal sangue in eccesso, restituivano una perfetta nomenclatura. Quella a cui aveva disperatamente cercato di attribuire un senso, qualcosa che le facesse capire o che, quantomeno, le desse un indizio su cosa diavolo significassero quei nomi. ‘Creatura’ probabilmente era riferito a qualcosa che veniva ‘creato’, ovvio, ma lei… lei non era stata ‘creata’.
O forse sì, ma, a meno che non si trattasse del processo di concepimento dei suoi genitori -cosa da escludere, data la presenza del secondo nome, ‘Adrian Cleveland’- non riusciva ad attribuirgli alcun senso logico.

Smise di rimuginarci sopra quando i morsi della fame, che tornavano all’attacco ad intervalli di due/tre ore, le sconquassarono lo stomaco.
Alicia si piegò in due, e, nel farlo, il movimento provocò lo stridulo tintinnio di quelle maledette manette che le stringevano i polsi. Un suono ormai divenuto familiare, tante erano le volte in cui veniva prodotto. Si sentì scoppiare le meningi.
Allungò un braccio, per quanto le fu permesso dalla ridotta lunghezza delle catene, e afferrò la ciotola con l’acqua. Poi se la portò alle labbra con bramosia, affondandovi completamente la bocca e svuotandola in meno di una decina di secondi. Rimase a fissare la ciotola ormai vuota per la durata di non più di un minuto, poi, animata da un cieco furore, la scagliò lontano, ignorando il rumore metallico che rimbombò per tutta l’ampiezza della cella.

Judith ― il Marchio. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora