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La donna gettò lo sguardo a destra e a sinistra un'ennesima volta e, dopo essersi sincerata che non ci fosse nessuno nelle vicinanze, fece scattare il lucchetto. L'accolse l'interno freddo e buio, come lo ricordava. Erano tre giorni che non entrava in quel posto. Aveva atteso un giorno di troppo, per via dei problemi che aveva avuto a casa, e ora sperava che la ragazza non fosse già spirata anche se, molto probabilmente, era una speranza vana.

Cinque giorni senza cibo e già in partenza si era accorta che quel minuto essere era troppo fragile persino per reggersi in piedi. Aveva determinato la sua rovina, ma stranamente la cosa non la turbava. Forse, pensò mentre percorreva a piccoli passi il corridoio centrale tastando la parete umida e sporca, perché l'aveva già fatto svariate di volte e non si era mai fatta troppi scrupoli.

Il locale era un sette per quattro, perciò non impiegò troppo tempo a raggiungere il covo esatto dove la ragazza era incatenata. Lo zainetto con le mele e il pane, raffermo, scivolò a terra quando fece scattare il secondo lucchetto e si immerse nella penombra della stanza. Dall'angolo in cui si trovava, scorse la ragazza rannicchiata nell'altro lato, la testa penzoloni in avanti e le mani abbandonate sul freddo cemento. L'aveva spogliata di tutto, il giorno in cui l'aveva rapita, eccetto del reggiseno e delle mutande e, forse, il freddo si era coalizzato con i morsi della fame per ridurla in quello stato.

Il lavoro che il suo coltello, ereditato dal nonno che lo aveva usato tutta la vita nella caccia ai cinghiali, aveva compiuto sulle sue gambe candide era ancora vivo sulla carne, sebbene fosse diventato più sfocato in alcuni punti a causa del sangue rappreso.
La donna si perse ad ammirare ciò che le sue mani avevano creato, immobilizzandosi con la mano, coperta dal guanto di pelle, sull'anta della porta. È un lavoro ottimo, pensò, e in quel momento il piacere che ogni volta provava nell'incidere la carne fresca delle giovani vittime la percosse, inebriandola. Avvertì una scossa di pura e bollente elettricità in ogni anfratto del proprio corpo e, alla fine, si sentì il petto vibrare e raggiungere una gioia pazza.

Lentamente, si avvicinò alla ragazza e si inginocchiò davanti a lei. Con la mano le sollevò il mento. Gli occhi erano chiusi, sembravano tumefatti, la pelle secca e all'apparenza priva di vita. La donna le scostò i capelli dalla faccia dietro le orecchie, il gesto che avrebbe compiuto una madre con la propria figlia, e fece schioccare le nocche contro il suo zigomo. A quel movimento, d'improvviso la ragazza sollevò le palpebre. L'altra notò con piacere il rossore della sclera, il terrore dilagare e prendere possesso del suo sguardo azzurrino. Le sue labbra aride e secche tremarono, forse nel tentativo di pronunciare qualche parola, ma nessun suono fuoriscì da quella bocca pallida e perfetta.

«Sei così bella, Alicia... » sussurrò la donna a pochi centimetri dal suo viso, e lei tremò, ancora, incapace di muovere qualunque altro muscolo.
«Non devi avere paura.»

Alicia la fissava, immobile, mentre il panico le ribolliva nel petto, nella testa, in ogni parte più recondita del suo essere. Non avere paura.

«Ho detto che non devi avere paura, Alicia. E tu devi obbedire.»
Il tono della donna, stavolta, si fece più severo, categorico. Alicia vide il suo sguardo mutare in qualcosa di grottesco, mentre i morsi della fame le tagliavano lo stomaco, facendola piegare in due dal dolore.

«A testa alta, Alicia. Non lasciare vincere questa fame cattiva.»

La donna allungò un braccio dietro di sé e afferrò lo zaino contenente il cibo, per poi aprirlo con una sola mano.

«Ecco» le porse una mela, rossa, con una lentezza studiata ed estenuante.
«Ecco, piccola, mangia. Mangia

Alicia la guardò, la testa ancora penzolante e la stanchezza che la rimandava inevitabilmente sempre verso il basso.

L'orgoglio le diceva di non accettare quella mela, ma il bisogno primitivo di riempirsi lo stomaco prevalse.
Afferrò il frutto e vi affondò i denti con una violenza inaudita, una forza che non avrebbe mai immaginato di possedere. L'avidità con cui la vide divorare quella mela indusse la donna a sogghignare.

«Ecco, così. Brava, Alicia.»

«Che cosa vuoi... da me?»
La voce le uscì in un rantolo, un sospiro emesso a fatica. «Perché mi hai fatto questo?»
Abbassò lo sguardo sui tagli che percorrevano le sue gambe, mentre gli occhi si riempivano di lacrime gelide.

La donna la guardò con dolcezza, scuotendo la testa e accarezzandole la guancia con la mano guantata. La ragazza percepì la freddezza del tessuto nero di quella mano, ma non ebbe la forza di rabbrividire.

«Per ricordarti a chi appartieni e qual è il tuo posto» rispose sottovoce.

«Ti ho portata qui perché sei una dei due tasselli mancanti al completamento del ciclo. Manca poco, davvero poco. Andrà tutto bene, Alicia. Mi hai sentito? Tutto bene. Presto non sentirai più dolore.»

Judith ― il Marchio. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora