Capitolo 37

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ANDREA

Aprii gli occhi e mi trovai in una stanza che non era la mia stanza, con dei fili sparsi ed attaccati dappertutto, indolenzita ed ero praticamente isolata dal resto del mondo, come se a nessuno, per nessuna ragione, fosse permesso di starmi vicino.

Iniziai a guardarmi intorno.
Non vedevo altro che fili colorati ed intrecciati tra di loro, non sentivo altro che il suono dell'elettrocardiogramma.
C'era una porta di vetro scorrevole che mi divideva dal mondo esterno.

Perché ero chiusa qui?
Cosa era successo?
Perché nessuno osava avvicinarsi?
Ero viva o questo era solo un brutto incubo?

Non riuscivo ad ottenere delle risposte. In fondo era normale, ero lì, da sola, senza nessuno al mio fianco, senza nessuno che aspettasse il mio risveglio, senza nessuno che mi tranquillizzasse e mi spiegasse perché ero finita proprio lì.

Con le mie mille paranoie, vidi entrare una ragazza con un camice celeste. Presumevo fosse un'infermiera, Molto gentile e dall'aspetto assai curato.

"Ciao Andrea, come stai? Io sono Alexandra, l'infermiera di turno. " Mi chiese con un tono calmo, gentile e con il suo sorriso perfetto in viso.

Come sto?
Non so dimmi tu. Sono chiusa in una stanza da non so quanto tempo, non una stanza qualunque ma in una d'ospedale, non sapendo il motivo di questa mia permanenza e con dolori lancinanti.

Mi limitai nel risponderle "bene, grazie"

"Perfetto. Ricordi cosa è successo?" Mi chiese con il solito sorriso in volto.

"No." Risposi seccamente.

Si, forse ero stata un po' brusca ma non amavo particolarmente essere tartassata di domande e stare perennemente all'oscuro di tutto.
Ero stanca, volevo sapere cos'era successo, perché ero lì e perché questa ragazza si stava comportando in questo modo.

La vidi molto in difficoltà, come se fosse nuova del mestiere.
La incitai, cercando di inviarle uno sguardo comprensivo.

"Hai avuto un incidente automobilistico, all'incirca una settimana fa." Disse.

Appena sentii quelle parole, il mio sguardo preoccupato ricadde involontariamente su una figura maschile che era proprio al di là del vetro.
Era un ragazzo alto, moro, con occhi vispi e un po' ammaccato, proprio come mi sentivo io: ammaccata, anche se al momento non avevo ancora visto il mio aspetto.

Dopo averlo scrutato per pochi secondi, riportai il mio sguardo verso l'infermiera. Era perso, vuoto, nullo, come se in quel momento, ogni minima cosa, sarebbe stato in grado di distruggermi.
Ero vulnerabile, e non intendevo fisicamente ma mentalmente.
Ero fragile.

A quel punto l'infermiera cercò di riportarmi alla realtà.
"Ti dice qualcosa il nome Serkan?" Mi chiese perplessa.

"Dovrebbe dirmi qualcosa questo nome? Perché in questo momento davvero non so chi sia." Risposi con un pizzico di paura.

Perché mi aveva chiesto di questo Serkan?
Chi era?
Cosa stava succedendo?

"Capisco. Tornerò più tardi per altri controlli. Ci vediamo dopo."

Stava andando via senza avermi dato nessuna spiegazione.
Doveva farlo?
Mi aveva già detto tutto quello che dovevo sapere?

Prima che uscisse dalla stanza, tossii rumorosamente così che potesse accorgersi che avevo bisogno di qualcosa.

Si voltò immediatamente e le chiesi "ma lui chi è?" Guardando il ragazzo che mi fissava da lontano.

Sentivo che lui non era uno sconosciuto, come se lui era lì per un preciso motivo, come se mancasse un pezzo del puzzle per capire tutto.
Mancava lui, lui era il pezzo.

"Ci vediamo dopo" si limitò a dire.

<<Bella stronza>> pensai.
Perché non mi aveva voluto rispondere? Cosa c'era di tanto complicato?
Lei sapeva ed io ero in dovere di sapere tanto quanto lei, se non di più.

Uscì velocemente dalla stanza ed io rimasi sola, ancora una volta.
Quella porta di vetro la detestavo.
Dov'era andata a finire la privacy?
Perché tutti dovevano vedere ogni minima mossa che facevo?

E poi... quel ragazzo.
Quel ragazzo mi metteva in soggezione. Continuava a stare lì, fermo, seduto su una scomodissima sedia ed ogni tanto buttava lo sguardo verso la mia stanza.

Dovevo ricevere delle risposte. Ne avevo bisogno.
Com'era stato l'incidente?
Con quale macchina poi? Io non guidavo e non avevo la patente.

Pensai subito a mamma.
Non si era ancora fatta vedere, non era venuta a trovarmi.
Eravamo noi due dentro quella macchina?
Dov'era la mia mamma?
Iniziavo a preoccuparmi come quando da bambina perdi di vista la mamma all'interno di un grande supermercato.
Al solo pensiero di aver fatto un incidente con mamma, mi si bloccava il respiro.
E se lei non ci fosse più?
Come potrei andare avanti ?
Ogni volta che pensavo a lei, le lacrime mi rigavano il viso.

Non era possibile tutto questo.
Non poteva essere successo proprio a me.
Mentre mi asciugavo le lacrime con il lenzuolo, sentii la porta aprirsi.

"Amore mio, sei sveglia, grazie a Dio. Pensavo non ti saresti svegliata più. Sono stati giorni logoranti amore mio." Era lei, Era la sua voce.
L'avrei riconosciuta tra milioni.
Era lei, la mia forza, la mia roccia.

Non potevo crederci, pensavo fosse un sogno ma mi accorsi di essermi sbagliata quando, togliendomi il lenzuolo dagli occhi, la vidi.
Lei, in tutto il suo splendore, con occhi lucidi e pieni d'amore.

"Mamma" dissi semplicemente.
Non riuscivo a parlare.
Volevo solo sentirla, sentirla con me, al mio fianco, non volevo altro dalla vita in quel momento.

YOU ARE MY SUNDove le storie prendono vita. Scoprilo ora