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Sumiko mi aiutò a trascinarmi fino ad una vecchia poltrona, la cui pelle era talmente secca da presentare una fitta ragnatela di crepe. Dopo essermi disteso, i piedi abbandonati su un poggiolo, mi addormentai subito dopo.

Ero talmente esausto che il mio cervello non ebbe la forza di sognare. Mi spensi, come un computer surriscaldato, e sprofondai in un confortevole buio.

Quando riaprii gli occhi, osservai il soffitto, e fui stupito di non vedere i drappeggi del letto a baldacchino del GOPEP, o la fitta rete di tubature presente nel cubicolo di Sumiko; mi trovavo in una stanza semibuia, dalle pareti spoglie, su cui spiccavano ampie macchie di muffa e umidità. L'aria era satura e pesante.

Per una seconda volta, mi trovavo nei panni di Agatha Hoffmann.

Avevo appena ucciso una seconda volta, pregando che questo servisse definitivamente a scagionare Gene Sanders dall'accusa di omicidio. Prima c'era stata una giovane donna, che aveva avuto la sfortuna di rivolgermi la parola mentre stavamo aspettando l'autobus per raggiungere Camden Town, ed ora era toccato a un uomo di mezz'età dallo sguardo spento, che si era fermato a fumare una sigaretta poco fuori dal pub in cui mi ero fermata a prendere una birra rossa, irlandese. Conoscevo il nome della prima, Samantha, solo perché ne avevano parlato al telegiornale. Per quanto riguardava il secondo, invece, i notiziari non avevano ancora divulgato alcuna informazione.

In fondo di loro non mi importava, non erano stati degli Esper, ma dei semplici capri espiatori; l'unica faccia che desiderassi vedere era quella di Gene. Volevo contemplarlo mentre usciva dalla prigione in cui l'avevano rinchiuso e gli agenti si scusavano con lui per lo sbaglio commesso.

Già vedevo i titoli dei giornali: "Clamoroso errore di Scotland Yard, arrestato reo-buonuomo".

Erano talmente disperati per il mio caso da fiondarsi su chiunque avesse il minimo in comune con me.

Mentre ero distesa sul letto, intenta a fumare una delle sigarette che avevo sottratto all'uomo ucciso poche ore prima, guardavo fuori dalla finestra. Il cielo incombeva su Londra come se Atlante, il titano che sorreggeva la volta celeste, si fosse chinato un po' di più sotto il suo indicibile peso. Mi chiedevo se piovesse anche dove si trovava Gene, in questo momento. Lo sentivo lontano e, allo stesso tempo, vicino. La sua coscienza era diventata un lumino la cui luce è in procinto di essere affogata dalla cera. Forse, stava per entrare nella fase REM del sonno, dove la nostra mente è inaccessibile per chiunque.

Riposa, Gene., pensai, scoccando un'occhiata all'ultima tela cui mi stavo dedicando. Anche col buio riuscivo a scorgere il verde sporco degli occhi che vi erano raffigurati, oltre il panno bianco che avevo posato sopra l'opera per proteggerla da eventuali danni. Ne avrai bisogno.

Tornai in me con un sussulto. Ci misi qualche secondo per capire di non essere più in quella buia stanza, ma al sicuro, disteso sulla poltrona di Sumiko. La ragazzina mi guardava con apprensione, una mano affondata nei miei capelli, da cui gocciolava sudore: il mio corpo ne era ricoperto, e avevo il fiatone.

- Cos'è successo? - le chiesi. La mia voce era tremula e acuta, irriconoscibile. Mi schiarii la gola e ripetei la domanda, cercando di controllarmi.

- Parlavi nel sonno. Non riuscivo a svegliarti.

- E cosa dicevo?

- Vaneggiavi di una certa Agatha Hoffmann e degli assassinii. - sussurrò Sumiko, raccogliendo una delle mie mani fra le proprie.

Io deglutii a fatica e la implorai di ascoltarmi: non ero io l'assassino, nonostante avessi detto quelle cose. Mi avevano incastrato.

- Ma certo che non sei stato tu. - sospirò lei, abbozzando un sorriso. Indicò le nostre mani giunte con un cenno del capo. - Se così fosse, lo sentirei. Sei solo molto confuso. Qualcuno sta giocando con la tua mente, Gene, e non solo. Sta giocando con tutti noi.

Esper (da revisionare) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora