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La statua di Horatio Nelson era attraversata da sottili rivoli di pioggia, che colavano lungo i bordi della sua veste. Io e Sumiko eravamo seduti in una panchina all'interno del minuscolo giardino che circondava il monumento, lei intenta a borbottare fra sé e sé, le dita intrecciate come se non volesse scioglierle prima di qualche anno, mentre io fissavo l'eroe della flotta britannica.

Era buio, e mancavano due ore all'incontro prefissato con Wendy, al cinema abbandonato.

Avevamo compiuto una ricerca su internet e scoperto dove l'avremmo trovata. Il cinema era qualche isolato più lontano, in un quartiere poco frequentato. Doveva essere stato popolare anni fa, ovunque si scorgevano i segni della decadenza di un posto un tempo affollato. L'insegna del cinema era stata coperta con un telone nero, e la maggior parte delle lucine che la circondavano erano rotte o scoppiate. La biglietteria era sbarrata, così come le porte d'ingresso. L'interno era stato ricoperto da delle carte di giornale per occultarlo, ma col tempo alcune si erano staccate e si riusciva comunque a darci una sbirciatina.

Vi avevamo fatto un sopralluogo circa mezz'ora fa, senza riuscire a trovare niente.

Sumiko aveva studiato la planimetria dell'edificio, che era riuscita a sottrarre dal deep web, hackerando un paio di siti della città. Aveva individuato un'entrata secondaria, dall'altro lato della strada, che non era chiusa altrettanto bene.

Dopo averci dato un paio di calci, avevamo realizzato che saremo riusciti ad abbatterla senza troppa difficoltà. Il fatto che la zona fosse poco frequentata avrebbe contribuito a non farci scoprire.

Wendy aveva pensato al posto perfetto.

Nessuno ci avrebbe sentiti gridare, qualora i fatti avessero preso una brutta piega.

Dopo essere stati al cinema abbandonato, eravamo tornati qui, dato che non c'era ancora segno che Wendy fosse arrivata.

Mi sarei aspettato di essere agitato, ma mi sentivo stranamente apatico, come se mi avessero svuotato da ogni emozione. Ormai ero solo stanco, volevo che questa storia finisse e tornare alla mia vita di tutti i giorni.

Tuttavia, nonostante la bizzarra calma che mi aveva pervaso, ero molto preoccupato per Sumiko. Mi chiedevo cos'avrebbe fatto, una volta davanti a Wendy, e se si sarebbe attenuta al piano che avevamo programmato.

L'avevo convinta a lasciarmi parlare con Wendy. Le avevo ripetuto più volte di come lei fosse molto più forte di noi e l'unico modo per affrontarla fosse convincerla ad abbandonare il suo proposito. Dovevamo trovare una via pacifica, la vendetta avrebbe avuto il solo effetto di farla infuriare. Dopotutto, Wendy non sapeva niente di Sumiko, non aveva idea che io non fossi solo. Temevo che se la sarebbe potuta prendere con la ragazzina, se l'avesse scoperta, e non volevo che nessuno si facesse del male.

Wendy voleva me, solo me.

Nel caso le cose si fossero messe male, Sumiko non avrebbe dovuto subirne le conseguenze. Quella povera bambina aveva già sofferto abbastanza e mi sentivo in dovere di proteggerla.

Sentivo che tutto questo era colpa mia: avrei dovuto notare la pazzia di Wendy. Ora era un mio dovere fermarla. Aveva fatto del male a Sumiko, a me e a Lucy, per non parlare di tutte le povere persone innocenti che aveva ucciso nel tentativo di colmare la sua malsana sete d'amore. Non le avrei permesso di ferire nessun altro.

Se non avessi superato la sua misteriosa prova e, durante questo processo, avesse cercato di aggredirmi... allora, solo allora, avrei contrattaccato. Non avevo mai usato la mia mente per aggredire qualcuno volontariamente, ma pregavo che avrebbe funzionato, se fossi stato sottoposto ad una pressione sufficiente da parte di Wendy. Le uniche volte in cui riuscissi a controbattere era quando mi spingevano al limite e non potevo più controllarmi.

Pregavo che la bomba ad orologeria che giaceva dentro di me potesse essermi utile, almeno per una volta. Avrei distrutto me stesso e Wendy nello stesso momento, così non le sarei sopravvissuto per vivere con un altro, enorme peso sul cuore.

- Sumiko - chiamai, mettendole una mano sulla spalla, mentre con l'altra reggevo l'ombrello.

Lei sussultò per lo spavento, sottratta improvvisamente dai suoi pensieri.

- Che c'è? - sbottò, più brusca di quanto volesse.

- Andiamo a mangiare qualcosa di buono. Tanto, c'è molto tempo prima di andare da Wendy. Sono sicuro che non si farà viva prima di tarda notte. - mormorai, cercando di suonare dolce e comprensivo.

- Non ho fame - ringhiò lei, scostandosi dalla mia presa.

Si pentì subito dopo di essermisi rivolta con quel tono e nascose il viso fra le mani, con un profondo sospiro.

- Se vuoi, possiamo solo passeggiare - la incitai, incoraggiandola con un sorriso. - In fondo, nemmeno io ho fame. Ho lo stomaco annodato, non riuscirei a mangiare niente. Cercavo solo di allentare la tensione... ecco, potrebbe essere l'ultima volta che facciamo qualcosa di piacevole.

La ragazzina mi scrutò in silenzio, poi un lieve sorriso le si dipinse sul volto.

- E va bene. - approvò - Passeggiata sia.

Io mi alzai e le offrii il mio braccio sinistro, cui lei si aggrappò. Camminammo nel piccolo giardino di Horatio Nelson, la ghiaia che scricchiolava sotto i nostri piedi e le pozzanghere che emettevano dei sonori "squish" e "squash" ogni volta in cui vi affondavamo gli stivali.

Passammo così il tempo rimanente, in silenzio, passeggiando nel giardino e, in seguito, allargandoci nelle viuzze circostanti. Passammo anche davanti a quel negozio biologico dove Lucy mi aveva trascinato nel vano tentativo di convincermi a mangiare in modo salutare, e mi si strinse il cuore.

- Quanto avrei voluto rivederla. - sussurrai - Ma, forse, è meglio così.

- Non dire sciocchezze. - mormorò Sumiko, guardandomi male - Non sei tu ad essere sbagliato.

- Nessuno è del tutto innocente. - sospirai - Il mio più grande rammarico è che non sono mai riuscito a vivere una vita tranquilla, normale, di quelle che vedi in quelle smielate serie tv del sabato pomeriggio.

Sumiko soffocò una risatina.

- Davvero l'avresti voluta, una vita del genere? - mi provocò, inarcando le sopracciglia.

Io ci pensai e feci una smorfia.

- No. - ammisi, stringendomi nelle spalle - Però avrei voluto che le cose fossero semplici, per una volta.

Sumiko sospirò, e il suo sguardo nero ebano si perse nell'orizzonte cupo della periferia, mentre ci sedevamo sul punto più alto del piccolo parco comunale, una piccola collina sulla quale c'era una scalinata di pietra e metallo.

- Lo vorrei tanto anche io.

Restammo lì per un po', illudendoci che quella pace potesse durare per sempre. Fu doloroso, realizzare che questo momento era solo una pausa all'interno di un ciclone di coltelli, ma fu un dolore dolce, mentre lo stavo ancora vivendo.

Infine, dovemmo alzarci e tornare sui nostri passi.

Era tempo di affrontare Wendy, una volta per tutte.

Esper (da revisionare) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora