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Ebbi l'impressione di sprofondare e, quando riemersi, mi trovavo all'aperto, in centro a Londra, nel bel mezzo dello struscio. Ero nei pressi della stazione della metropolitana a Hyde Park, e stavo fissando la tabella oraria.

La voce asettica e familiare degli altoparlanti che ripetevano "Mind the gap" mi fece sentire a casa.

Salii a bordo della metro che portava nella zona di Camden, da dove poi avrei raggiunto casa a piedi.

Il vento caldo che proveniva dal fondo dei tunnel ogni volta in cui i treni sotterranei si avvicinavano mi scompigliò i capelli, facendomi sorridere.

Mi piaceva molto viaggiare in metro. Si incontrava un sacco di gente interessante. Era lì che avevo trovato molti Esper, dato che le stazioni erano un crocevia dei popoli.

Se individuavo qualcuno che suscitava il mio interesse, mi bastava seguirlo, con tutta la facilità che derivava dall'affollamento delle strade di Londra. Quasi nessuno si accorgeva di me e, se accadeva, gli lasciavo un po' di vantaggio, per poi recuperarlo quando aveva abbassato la guardia.

Salii a bordo del treno e occupai uno dei rari posti puliti. La metro era piuttosto vuota, data la tarda ora. Erano le undici e mezza, ed era stata una giornata molto lunga. L'unica cosa che volevo era tornare a casa e fare una bella dormita, dopo aver controllato che i giornali comunicassero qualche novità sull'ultimo uomo ucciso. Sembrava che la polizia volesse tener la notizia nascosta, per non agitare ulteriormente la popolazione.

Non che far finta che non fosse successo niente potesse fermare le morti.

Sarebbero cessate solo se mi avessero restituito Gene, dandomi modo di metterlo alla prova.

Scesi a Camden e imboccai la strada principale, ancora stipata di luci e persone che camminavano fra i negozi. Aprivano tardi la mattina, e la chiusura era posticipata.

Mi fermai di fronte ad uno dei miei negozi preferiti, osservando un abito in pizzo nero, con delle croci bianche ricamate sul fianco destro.

Fu allora che mi resi conto di essere pedinata.

Con la coda dell'occhio, scorsi l'orlo di un giubbotto e delle scarpe con la zeppa, nere e opache, ricoperte di borchie. Cattivo gusto. Io preferivo il nero sobrio, lo trovavo assai più elegante. Al massimo potevo concedermi qualche simbolo particolare, ma in fatto di scarpe non ammettevo eccezioni.

Feci finta di niente e ripresi la mia strada.

Non appena ci trovammo in una zona meno frequentata, avvertii il passo alle mie spalle accelerare sempre più, finché una mano non mi afferrò per un polso, trascinandomi brutalmente in un vicolo isolato.

Il tizio che mi aveva seguita si rivelò essere un giovane sui venticinque anni. Aveva un trucco pesante e dei capelli lisci e neri che gli arrivavano poco sotto le spalle. Era molto bello e, a giudicare dal suo sorriso, sapeva di esserlo. L'aggressività con cui mi stava stringendo le braccia suggeriva che era ubriaco, così come lo scintillio malsano nei suoi occhi neri.

- Mi piaci, sai? - disse, mollandomi un istante, per potermi accarezzare il viso, le dita che tremavano per la bramosia. - Ti ho vista altre volte. Vieni sempre lì, ma non compri mai niente. Staresti davvero bene con uno di quei vestiti... - Qui mi scoccò una lunga occhiata, esaminandomi da capo a piedi, e il suo sorriso si allargò. - ... anche se, a dire il vero, staresti meglio senza niente addosso.

- Tu dici, tesoro? - gli chiesi, in tono dolce, scostandogli una ciocca di capelli dalla fronte. In realtà fremevo di rabbia, ma volevo dargli la possibilità di andarsene. - Non credo sia una cosa molto carina da dire.

Senza tante cerimonie, lui infilò una mano sotto la corta minigonna che indossavo. A quel punto non riuscii più a trattenermi e lo fulminai con uno sguardo di glaciale. Un'onda abbandonò il mio corpo, investendolo in pieno.

Il ragazzo si portò una mano alla fronte, come se non riuscisse a capire cosa l'avesse colpito, e osservò con sguardo vuoto il sangue che gli impiastricciava le dita. Lo osservai freddamente mentre cadeva a terra, senza provare il minimo rimorso. Gli avevo dato una chance, ma lui non l'aveva colta. Peccato, sarebbe stato carino, se non fosse stato un cafone.

Posai una scarpa sul suo viso e, nei suoi occhi spenti, vidi uno spettro del terrore che aveva provato nei suoi ultimi attimi di vita. Il sangue che aveva perso dal naso e dalle orecchie aveva inzaccherato il suo prezioso cappotto in pelle nera. A differenza delle scarpe, quello era molto bello. Mi chinai e lo raccolsi, prendendolo sotto braccio. Dopo un bel giro in lavatrice, sarebbe stato come nuovo.

- Grazie per il regalo. - mormorai, tornando sulla mia strada.

Siccome io indossavo sempre dei guanti in pelle, di sera, non c'era pericolo che avessi lasciato impronte in giro o qualsivoglia traccia. Comunque, nessuno sospettava di me. Perché avrebbero dovuto? Ero solo una delle tante ragazze strambe che camminavano nelle vie della città, dopo che il sole era calato, quando si avvicinava l'ora delle ombre.

Mi fermai di proposito di fronte alla vetrina luccicante di un negozio di souvenir meno affollato degli altri e sorrisi al mio riflesso. Avevo sempre saputo che lui era lì, nelle retrovie, sin da quando eravamo saliti assieme a bordo della metro. Non che la sua presenza mi desse fastidio, anzi, ne ero lusingata. Nessuno era mai riuscito a rintracciarmi in quel modo... non in maniera cosciente, almeno.

- Ciao, Gene.

Annaspai come se fossi stato sul punto di affogare e scattai a sedere, tremando dalla testa ai piedi. Mi aveva visto. Sapeva che ero con lei.

- Gene, stai bene?

- Mi ha visto. - esalai, con un gemito di terrore. - Mi ha visto, sa dove sono. Ci verrà a cercare!

Sumiko per un istante restò paralizzata, poi recuperò la consueta calma e mi mise le mani sulle spalle per tranquillizzarmi.

- Nessuno ci troverà qui, Gene. E, anche se ci avesse localizzati, ci vorrebbero delle ore prima che ci raggiunga. Che io sappia, nessun Esper può teletrasportarsi.

Le sue parole mi fecero recuperare un barlume di lucidità.

- Hai ragione. - gorgogliai, annuendo freneticamente. - Ma certo, non può trovarci. No, non può.

- Adesso calmati e spiegami cos'è successo nel dettaglio, d'accordo?

Dopo un paio di respiri profondi, radunai le idee e le riferii tutto quello che mi ricordavo.

Sumiko non sembrò affatto preoccupata che il mostro mi avesse visto. Riusciva a stento a contenere l'eccitazione.

- Allora non ti ha visto solo lei... l'hai vista anche tu! Com'era fatta, Gene?

- Non c'è bisogno che te lo dica.

- Perché? - chiese Sumiko, aggrottando le sopracciglia.

- Perché la conosco. - sibilai, evitando il suo sguardo.

La ragazzina spalancò gli occhi per la sorpresa e cominciò a farmi domande con rinnovato entusiasmo.

- Ma è perfetto, Gene! Cosa aspetti? Dimmelo, avanti!

Arrivò ad afferrarmi per le spalle, ci mancò poco che mi minacciasse. Voleva saperlo a tutti i costi.

- Sumiko, non possiamo affrontarla. - mormorai, cercando di sedare la sua frenesia. - Mi è stata vicina per tutto questo tempo senza che io mi rendessi conto della sua presenza. E' troppo furba, troppo forte.

- Tu sei impazzito. - sussurrò Sumiko, guardandomi come se fossi stato sostituito da un estraneo. - Non capisci che noi dobbiamo affrontarla? Se non lo faremo, altra gente morirà, e anche la scomparsa di mia sorella sarebbe stata inutile.

In fondo aveva ragione, ma come potevo dirlo ad alta voce? Avevo l'impressione di avere un blocco in gola e di non riuscire a respirare. Se solo me ne fossi reso conto prima, se solo avessi tenuto gli occhi aperti, meno persone sarebbero morte. Forse lei non si sarebbe fissata su di me fino a quel punto, se non le avessi mostrato un po' di amicizia.

- Agatha Hoffmann è Wendy. - esalai, in un soffio. - Per tutto questo tempo, è sempre stata lì, a un passo da me, e io non ho visto niente.

Esper (da revisionare) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora