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Sumiko era seduta poco lontano dalla navicella in costruzione, e la osservava con la fronte corrugata, le labbra pallide contratte, come se si stesse sforzando di non piangere.

Mi avvicinai a Hlovatt, intento a sistemare gli ultimi pannelli della nave, e lui fece una smorfia.

- E' da stamattina che è così - sbottò. - Non riesco a lavorare con lei che mi guarda in quel modo.

- Ci penso io - lo rassicurai, mentre lui annuiva, tornando a stringere alcuni bulloni.

Mi sedetti al fianco della ragazzina, che non diede cenno di avermi visto. Continuava a guardare dritto davanti a sé, come se il mondo intero le avesse fatto un torto.

- Cosa succede? - le chiesi, posandole una mano su una spalla per darle un po' di conforto.

- Non mi va di parlarne - ringhiò lei, scostandosi.

Io la lasciai andare, circondandomi le ginocchia con le braccia.

- So che Keaton ti ha portato a parlare con i tuoi genitori.

- Anche tu hai parlato con i tuoi, no?

- No. Non abbiamo nulla da dirci, ormai. Ho parlato solo con le persone che mi volevano bene e sono state importanti per me. Lo sono ancora.

Sumiko arricciò il naso e sporse leggermente il labbro inferiore in avanti, come se stesse cercando di non piangere.

- Io non avevo nessuno - gorgogliò, con voce incrinata. - Keaton mi ha portato dai miei, e loro hanno detto che non mi volevano in mezzo ai piedi, dopo quello che era successo.

- Hanno detto una cosa del genere?

- No, ma... è come se l'avessero fatto. Mi hanno detto che era meglio per me partire, che non c'era nulla per me qui, ma l'hanno fatto con una tale leggerezza, con una tale semplicità, che è stato come se mi avessero detto che era un sollievo liberarsi di me una volta per tutte.

Sumiko si mise una mano sul viso per nascondersi e io la portai via. Non voleva piangere di fronte a Hlovatt.

La condussi in camera sua e la osservai mentre si sedeva sul letto, che cigolò sotto il suo peso.

La sua stanza era molto femminile. Era pulita, profumava di violette, e in un angolo c'era un'ampia valigia aperta con lo stemma del GOPEP, mezza riempita. Da essa sporgevano, accasciati sul pavimento, maniche di vestiti, gonne, calze e calzini, e qualche maglione. C'erano anche una risma di quaderni impacchettati, una scorta di penne, una tazza a forma di mucca e un sacchetto colmo di una polverina verde che riconobbi come the matcha.

Tuttavia molte cose erano ancora fuori, come se non si fosse ancora decisa.

Ora che era sola con me, si lasciò andare e scoppiò a piangere. Io la abbracciai. Mi dispiaceva vederla così triste. Come Trevor per me, volevo solo che fosse felice. A lungo andare, era diventata come una mia sorellina, e desideravo proteggerla.

Non avrei permesso a nessuno di farla sentire triste.

- Ti capisco, Sumiko. So quanto fa male, anche i miei genitori mi hanno rifiutato. Però ora hai me, e tutti gli altri. Noi ti vogliamo bene, e non ti scacceremo mai - dissi, mentre le accarezzavo i capelli. Erano cresciuti molto, ormai le arrivavano all'altezza delle scapole, ed erano lisci come seta. - Possiamo essere la tua nuova famiglia, se lo vuoi.

Lei si pulì il viso dalle lacrime e appoggiò la testa sulla mia spalla, rannicchiandosi al mio fianco.

- So che mi volete bene, e anche io ve ne voglio. Tu sei già la mia famiglia. E' solo che... sai...

Esper (da revisionare) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora