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Mario inspirò il fumo dalla sigaretta. Puntò stancamente un gomito sulla balaustra e vi appoggiò la testa. La musica del locale giungeva lontana e ovattata. Premeva sulle pareti insonorizzate, vagava oltre le porte chiuse, lo raggiungeva in suoni distorti ed irriconoscibili.

C'era sempre un momento durante la giornata in cui si estraniava, specialmente quando era circondato da molte persone. Era un momento in cui la sua mente si scollegava, scomparivano i contorni delle cose, si sbiadivano i colori del mondo, e Mario viveva in una bolla di sapone. Un senso di ansietà lo aggrediva. Gli partiva dalla bocca dello stomaco e si propagava per il resto della sua persona. Accadeva che, in qualsiasi contesto fosse, sentisse la necessità di allontanarsi, di staccare, e lo faceva. Ovunque fosse, in qualsiasi situazione si trovasse.

E proprio in quel momento il suo pensiero correva alle sensazioni straordinarie e terribili di cui non riusciva a liberarsi, che lo accompagnavano giorno e notte, che lo rendevano ciò che era. Che lo completavano.

Ancora un tiro e poi un sorso di vino. Poggiò nuovamente il calice sulla balaustra. Chiuse gli occhi e inspirò l'aria tersa di aprile. Era un giorno come un altro. Solo un giorno uguale a tutti quelli che nella sua vita si susseguivano costantemente, senza alcun avvenimento particolare. Eppure Mario era sempre lì, fermo al punto oltre il quale non riusciva ad andare.

Una porta dietro di lui si aprì. La musica divenne chiara, ma non si voltò. Fece un altro tiro alla sigaretta e sentì una presenza alle sue spalle. Prim'ancora della presenza, fu raggiunto dal suo profumo. Claudio.

La persona per la quale sentiva l'esigenza di estraniarsi. La persona che più di tutte al mondo fosse in grado di cambiare il suo umore e le sue percezioni. L'unica persona in grado di affiancarlo, in quei momenti. L'unico a non chiedergli spiegazioni. L'unico a capirlo, a comprendere i suoi malumori, le sue difficoltà, le sue stranezze, nonostante non avesse idea di esserne la causa.

Lo affiancò senza dire una parola e poggiò il calice di vino rosso sulla balaustra, accanto a quello di Mario. Accese anche lui una sigaretta, in silenzio.

Tra loro non c'era bisogno di parlare, era sempre stato così. Vivevano di una sintonia particolare per la quale nessuno dei due doveva precisare i propri stati d'animo. Si capivano tacitamente. Si scambiavano pensieri e sensazioni soltanto con uno sguardo. A volte Mario sentiva di essere l'unico ad avvertire quella compatibilità, quel bisogno dell'altro. Ma quando si convinceva di non essere così importante nella vita dell'amico, Claudio faceva qualcosa che lo sorprendeva.

Rimasero in silenzio per un po', senza guardarsi. Mario benedisse il momento esatto della sua vita in cui gli era capitato davanti quel ragazzo che, in un modo di cui neanche lui aveva percezione, gli aveva cambiato completamente l'esistenza.

Fu Claudio a rompere il silenzio.

"Ti sei già rotto il cazzo di lui, vero?"

Mario prese il bicchiere e sorseggiò lentamente il vino per prendere tempo. Claudio sapeva tutto, capiva tutto, e lui stesso gli raccontava ogni cosa che lo riguardasse, ma cercava sempre di essere quanto più vago possibile quando si trattava di parlare di sentimenti.

"È lì, sul palco, che dà il meglio di sé. Crede che tu lo stia ascoltando. Si crede pure bravo..." continuò.

Mario sorrise sull'orlo del bicchiere. "Lo è."

Mattia, il chitarrista della band che si esibiva quella sera all'Emporio Malkovich, era l'ultima conquista di Mario. Un bel ragazzo dagli occhi azzurri. Prestante, simpatico, un tipo a posto. Era persino un musicista, aveva il fascino del bello e dannato.

Ma Mario non si sarebbe mai accontentato di qualcuno che non gli provocasse quel brivido eterno che lo teneva continuamente in bilico tra la gioia e la disperazione, tra la speranza e l'oblio. Tra la vita e la morte.

L'altra parte di meDove le storie prendono vita. Scoprilo ora