Capitolo 7

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FLAVIO

Ogni mattina sveglia alle sei e trenta, doccia, caffè lungo – mi sono dovuto adattare - e metro in direzione del campus universitario. Piano secondo. Alle otto sono già tutti in fila ad aspettarmi, pronti per iniziare una giornata fatta di colloqui con i pazienti e compilazione di schede genetiche. Poi, prima del pranzo, scendiamo di tre piani e ci rinchiudiamo in laboratorio per restarci fino a tarda sera. Sono scrupoloso, ossessivo e maniacale nel fare qualsiasi cosa. Controllo con attenzione il lavoro del team e seguo i miei ragazzi come non ho mai seguito nessun altro. Spiego, sprono e incentivo.


Sono morboso? Lo so.


Ma non riesco a essere diverso. Giuditta dice sempre che se non fosse per il mio aspetto, somiglierei a uno di quei responsabili che nessuno vorrebbe mai incrociare durante un corso di studi. Sostiene che io sia pignolo, rigido e pretenzioso. Prendo sul serio il mio lavoro e ancor di più la mia missione, perché fare il ricercatore, per me, è una missione.


«A domani, ragazzi» saluto il gruppo prima di incamminarmi in direzione della metro come sempre, come ogni sera. Si è fatto più tardi del solito e sento la stanchezza fare capolino mentre i pensieri indugiano sulla videochiamata fatta poco fa alla mia fidanzata. Ho avuto la geniale, quanto rischiosa, idea di presentarle via Skype la squadra con cui lavoro. Insomma, mi è sembrato un gesto leale; mostrare la realtà nella quale mi trovo è un segno di rispetto nei confronti di Giuditta e delle idee che potrebbe farsi, dato che a dividerci ci sono proprio quei suoi milletrecentocinque chilomentri. Ma lei non ha preso molto bene la videochiamata di gruppo. Mi è apparsa tesa, nervosa e ingiustificatamente gelosa.


Conobbi Giuditta sei anni fa in un ufficio universitario, mi era stata assegnata come laureanda, io sarei stato il suo tutor da quel momento fino alla discussione della tesi. In verità non fu quello il primissimo contatto che ebbi con lei, qualche settimana prima del nostro incontro ufficiale mi urtò inavvertitamente in un locale rovesciandomi sopra la camicia il cocktail che teneva in mano. La macchia sulla stoffa andò via ma, tempo dopo, Giuditta riuscì a marchiare molto più a fondo il mio cuore. All'epoca era fidanzata con un tipo che io soprannominai "fidanzato fantasma" per l'atteggiamento che si ostinava ad avere con lei: un attimo prima c'era e l'amava con foga, un attimo dopo spariva facendola sprofondare in uno stato depressivo incalcolabile. Il nostro rapporto crebbe con il tempo, senza fretta. Io non ero certo il tipo di uomo in grado di perdere la testa per una donna da un momento all'altro e lei era ancora troppo acerba per poter instaurare una relazione seria con qualcuno. Giuditta, nei primissimi mesi della nostra relazione, era instabile e confusa, ma io mi innamorai anche di quel suo modo d'essere. La sua incostanza e le sue incertezze mi spronavano a proteggerla e a mostrarle il mondo sotto altri aspetti. Mi appariva come un fiore delicato da preservare, anche se la mia Giù si ostinava a voler apparire come una specie di amazzone, pronta a combattere per tutelarsi dall'amore. In verità anche io per molti anni ho temuto l'amore, quell'amore che mi ha devastato l'anima molto tempo prima di conoscere lei. Ma questa è un'altra storia.




«Ehi amore, che stai facendo?»


Giuditta sposta il tablet mostrandomi il lavello pieno di sapone. Sta lavando i piatti.


«Ti starai mica rimpinzando con quelle porcherie precotte?» la scimmiotto io, la mia ragazza è negata ai fornelli.


Ridammi indietro il cuoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora