CHLOE
Una sconvolgente scarica di ormoni. Lo schianto di labbra è inevitabile, complici lo stato di ebrezza e il contatto ravvicinato dei nostri corpi. Quello che sento, mentre la mia lingua lambisce la sua, è un'eccitazione ingovernabile. Vorrei esplorare con minuzia quella sua bocca invitante ma non faccio in tempo, un secondo dopo l'inizio del nostro scambio di effusioni avviene il distacco. Il suo. Mi posa le mani sopra le spalle e mi sposta all'indietro in maniera tanto energica da farmi vacillare. Restiamo a fissarci, occhi negli occhi, e capisco che Flavio è infuriato.
Che cosa hai combinato, Cloe? Ti ha dato di volta il cervello?!
Sono in un bel guaio, sono in un gran bel guaio e credo che per tirarmi fuori da questa spiacevole situazione non basterà una banale scusa. Il cuore mi pulsa in gola, lo sento che sembra quasi volermi uscire fuori dal corpo. Flavio mi guarda truce, con le iridi azzurre che ardono di rabbia e disgusto; la sua iniziale predisposizione nei miei riguardi sembra aver avuto una brusca inversione di rotta.
Si avvicina al mio orecchio e sento un fremito raggiungermi le gambe, credo di tremare quasi.
«Non azzardarti mai più, Cloe, o sei fuori dal progetto, per sempre. Farò terra bruciata intorno a te, credimi» pronuncia con tono glaciale e autoritario. Poi mi volta le spalle senza degnarmi di uno sguardo e se ne va.
Ho scavalcato il limite che il buon gusto e la ragione impone a due individui accomunati soltanto da un rigoroso rapporto di lavoro. Ho mandato al diavolo la possibilità di dimostrare chi sono nel mio campo professionale, mi sono deliberatamente suicidata. Per cosa poi? Per aver assecondato un momentaneo e ingovernabile impulso fisico. La testa gira come sopra una giostra, sento un vago senso di nausea fare capolino sulla bocca dello stomaco, vado verso il bar e ordino un cocktail. Lo ingurgito quasi fosse un conto da pagare per espiare la mia colpa. Quando arrivo all'ultimo sorso reprimo con forza la richiesta del mio corpo di liberarmi del veleno appena ingerito. Un veleno trasparente, dal retrogusto amaro ma straordinariamente confortante. Esco fuori dalla sala principale e attraverso il corridoio che pullula di ragazzi ridotti in uno stato pietoso quasi quanto il mio. Passo accanto agli armadietti di metallo attaccati alle pareti, mi ci aggrappo con la mano per trovare sostegno poi giro in un angolo e mi ritrovo nei bagni. Apro una porta e mi fiondo con la testa nel water, liberando lo stomaco dall'alcol ingerito. Quando esco fuori faccio appena in tempo a sciacquarmi il viso, subito dopo una miriade di stelline bianche iniziano a pulsarmi davanti agli occhi, il mio blackout è imminente e inevitabile.
Di solito non si sogna quando si è ubriachi da fare schifo, eppure io sto sognando, o forse no?
Sono davanti al portone di casa mia, la casa che ho scelto di affittare dopo aver capito che vivere nella dependance di famiglia poteva solo rappresentare un rischio alla mia salute mentale. Infilo la chiave nella serratura, giro, giro, giro ma non si apre mai. Sbatto con rabbia i pugni sulla porta, poi mi guardo intorno e vedo un enorme tronco. Lo afferro facendo leva su tutte le mie forze e inizio a spingere contro la porta. Un colpo. Due colpi. Tre colpi. L'uscio di casa si sgretola come cristallo rotto. Faccio un passo, uno solo, e mi accorgo che quella non è casa mia. È la casa dei miei genitori, quella dove sono cresciuta, quella che spesso ha accolto i pianti disperati di una bambina che cercava le attenzioni della propria madre, attenzioni negate, attenzioni delle quali ho sentito ogni singola privazione. Titubo, non voglio entrare. Questa non è casa mia. Quando il mio sguardo scende verso il pavimento, mi accorgo di un serpente. Un serpente enorme, con la pelle traslucida. Resta a fissarmi con la lingua rossa che esce ed entra dalla bocca, ripete quel movimento all'infinito e io resto paralizzata.
Apro gli occhi lentamente, metto a fuoco un'enorme macchia bianca, mano a mano il colore sfocato diventa più nitido fino ad apparirmi per quello che è, il soffitto di una stanza. Scendo con lo sguardo lungo la parete, c'è una tela enorme raffigurante Buddha e proseguendo più giù noto dei busti sartoriali ordinatamente disposti uno accanto all'altro. La mia bocca è disgustosamente impastata e la testa è una piattaforma di trivellazione. Scivolo a peso morto su un lato e il braccio mi cade sul il comodino, sopra di esso c'è un bicchiere pieno d'acqua con un biglietto che riporta la scritta "bevimi" e una confezione di paracetamolo con l'indicazione "ingoiami ". Alex e la sua lungimiranza. Mi alzo su un gomito cercando di vincere il forte senso di nausea causato dal mal di testa, poi la porta della stanza si apre ed entra il mio più fedele amico.
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Ridammi indietro il cuore
RomanceFlavio è un medico genetista di Milano in trasferta a Londra per un dottorato di ricerca finanziato dalla Kingstone University. Ha una fidanzata e un matrimonio alle porte. Chloe è una dottoressa fresca di laurea, scelta dall'università per entrare...