Capitolo 14

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Verona, dodici anni prima.

Ho sempre odiato il numero due, considerandolo come un numero da "rimpiazzo", un premio di consolazione, un'opportunità sprecata o un impegno portato a termine solo a metà. Il numero due era persino peggio dell'ultimo numero di una lista. Chi arriva ultimo ha l'opportunità di risalire la classifica, chi arriva secondo sarà sempre ricordato come quello che viene dopo il vincitore e io non l'ho mai sopportato.

Mi sono sempre impegnato per arrivare primo, e non dovermi trovare a rispondere ai prevedibili perché posti al secondo classificato. Ho sacrificato me stesso pur di dimostrare che con l'impegno si può arrivare lontano. La mia priorità, dopo aver iniziato l'università, è sempre stata quella di distinguermi dalla massa. L'ordinarietà mi spaventava, la possibilità di confondermi tra la folla mi avviliva. Io volevo arrivare in alto e quando scoprii la genetica e la possibilità di lavorare con il fine di migliorare il destino di persone meno fortunate, me ne innamorai. Disciplina e passione sarebbero stati i miei caratteri dominanti.

All'età di ventotto anni ero considerato da molti il discepolo preferito di uno dei professori più quotati del mio corso di specializzazione. Ero puntuale, diligente, preparato e disposto a tutto pur di emergere tra la folla di leccapiedi che potevano vantare patetiche doti di adulazione e nulla più. Io ero altro, mi impegnavo sul serio, tenendo sempre bene in mente l'obiettivo prefissato. Non c'era nulla che potesse mettersi tra me e la genetica, tra me e il laboratorio, tra me e la mia futura carriera. Poi c'era Viola, la mia fidanzata storica e la mia certezza più grande dopo il lavoro. L'amavo e conoscevo ogni cosa di lei, ogni caratteristica fisica e comportamentale, in undici anni di fidanzamento eravamo l'uno per l'altra un libro aperto.

Quel giorno, me lo ricordo con nitidezza brutale, era il compleanno di Viola, il suo ventottesimo compleanno. Ero uscito di casa presto come ogni mattina e le avevo rubato un bacio più lungo del previsto, ricordandole che ci saremmo rivisti in serata.

I miei programmi erano altri, in verità. Avevo intenzione di farle una sorpresa, rientrare con largo anticipo e stupirla per il suo compleanno. Avevo voglia di dedicarle quel tempo che spesso le sottraevo a causa degli impegni di lavoro. La verità era che, in più di qualche occasione, mi ero sentito in colpa per averle dato buca a un appuntamento, o per aver rimandato ancora una volta una cena romantica. Non lo facevo per ferirla, ma gli impegni accademici assorbivano davvero molto del mio tempo; ero convinto che Viola capisse, insomma era del mio lavoro che si trattava, non di uno stupido capriccio.

Alle sedici in punto salutai i miei colleghi e lasciai in sospeso alcune delle cose che ancora avevo da fare. Al diavolo! Non sarebbe di certo morto nessuno se per una volta mi fossi concesso il lusso di rimandare al giorno successivo i miei impegni professionali. Quel pomeriggio il cielo era plumbeo e l'aria densa di umidità, salii in sella alla mia moto e imboccai stradine secondarie pur di evitare il traffico che congestionava Milano nell'ora di punta. Mi fermai in coda a un semaforo e incrociai con lo sguardo la golosa vetrina di una pasticceria, allora parcheggiai e mi fiondai dentro quel bugigattolo dalle pareti color pastello. Nella minuscola stanza aleggiava un intenso profumo di vaniglia, sul bancone sfilavano torte invitanti e pittoresche. Ne scelsi una al cioccolato, e mi rimisi in sella alla moto galvanizzato dall'idea di stupire la mia fidanzata e dedicare una serata solo ed esclusivamente a noi. Magari avremmo cucinato insieme o ci saremmo accontentati di ordinare qualcosa a domicilio. Forse ci saremmo direttamente chiusi in camera da letto a fare l'amore.

Quando aprii la porta di casa nostra, venni avvolto da un silenzio insolito, Viola era una ragazza tanto pacata quanto rumorosa, ero certo che avrei trovato la televisione accesa e lei tutta intenta a girovagare per casa con il telefono all'orecchio. La televisione, invece, era spenta e la luce ambrata del tramonto stava lentamente conquistando ogni angolo della piccola abitazione. Mi concentrai sul ticchettio dell'orologio appeso sopra la parete mentre mi chiedevo che fine avesse fatto la mia fidanzata. Poi lo vidi, buttato scompostamente sullo schienale del divano, un giubbino di pelle scuro, troppo grande per essere di Viola.

Un fremito mi colse e sentii un groppo saltellarmi nello stomaco. Spostai lo sguardo verso l'anticamera tra la camera da letto e il bagno e mi accorsi che per terra erano buttati dei panni. Mi bloccai al centro della stanza in stato di trance, una voce dentro di me mi stava avvisando che qualcosa non andava. Ingoiai il magone che mi si era formato in gola e strinsi più forte la scatola con la torta che tenevo tra le mani, per un secondo mi impegnai a non imprimere troppa energia per evitare di schiacciare il dolce, poi la tensione mi fagocitò e camminai in fretta verso la stanza da letto. Erano pochi i metri da attraversare, ma a me sembrarono infiniti, aprii la porta e subito dopo desiderai diventare cieco.

Viola era distesa sul letto, le sue braccia avvolgevano un dorso abbronzato e robusto. Le sue gambe erano intrecciate ad altre, la sua schiena inarcata e sorretta da due braccia forti, suoi capelli erano aperti a ventaglio sopra il cuscino. Aveva gli occhi rivolti al soffitto e le labbra appena aperte, potevo udire qualche delicato gemito uscirle dalla gola. Poi c'era lui, sopra di lei che la faceva sua.

La torta mi cadde dalle mani, la scatola si aprì lasciando scivolare il dolce a terra, una scia di cioccolata macchiò il pavimento e io mi concentrai su quella striatura marrone per non cedere all'istintivo richiamo dell'ira. La rabbia mi fremeva dentro e stavo cercando un modo per non esplodere come una bomba a orologeria. Lo sentivo il tic toc dentro di me, la deflagrazione era imminente e avrebbe annientato tutto.

Poi lui, l'amante, il lurido bastardo si voltò e lo riconobbi. Era mio fratello. Mio fratello che si scopava la mia fidanzata, la donna che avrei sposato l'estate successiva.

Mi avventai su di lui come un barbaro, lo tirai per un braccio mentre farfugliava qualcosa, forse quelle che gli uscivano dalla bocca erano scuse, stupide ragioni per giustificare tutto. Non me ne curai e lo picchiai, gli tirai dei ganci in viso con una tale forza da farmi sanguinare le nocche delle mani. Viola urlava, mi pregava di fermarmi, mi scongiurava di smetterla.

«Così lo uccidi, Flavio!» gridò.

Mi bloccai con il pugno a mezz'aria, fermo in alto dietro la mia spalla, pronto a colpire ancora il volto di mio fratello. Lui approfittò di quell'istante di esitazione per divincolarsi e scappare dalla parte opposta della camera. Se avessi dato retta al mio istinto, lo avrei ucciso. Poi, però, cosa mi sarebbe rimasto? Nulla. Avrei perso anche quel poco che mi restava.

Percepivo il mio respiro veloce e affannato, spostai lo sguardo sulla sinistra e incrociai gli occhi spaventati di Viola, era rannicchiata sul letto, con le spalle schiacciate contro la testata, le mani aggrappate sulla stoffa stropicciata del lenzuolo; tentava di coprire più centimetri di pelle possibile.

«Ha già visto tutto di te,» le ringhiai contro «è inutile che cerchi di coprirti. Fai schifo, Viola.» Spostai l'attenzione su mio fratello e continuai «Mi fate schifo entrambi!»

La voce mi tremava, il cuore galoppava impazzito nel petto; non sapevo cos'altro dire. Dare della puttana alla mia fidanzata non mi avrebbe aiutato, etichettare mio fratello come un gran bel pezzo di merda non sarebbe bastato.

Me ne andai sbattendo la porta. Ma avrei voluto spaccare ogni cosa, la testa mi pulsava e le nocche della mano destra mi bruciavano. In quegli istanti non riuscivo a sentire nulla dentro, sembravo anestetizzato, vestito di una sostanza impermeabile. Salii sulla moto mentre dal cielo cominciava a cadere pioggia, giurai a me stesso che non mi sarei mai più fidato di una donna. Rinnegai mio fratello. Mi chiesi da quanto tempo andava avanti la loro relazione, quante volte avevano fatto dello sporco sesso sul nostro letto, mi domandai la ragione per cui Viola fosse arrivata al punto di farmi una cosa del genere.

E mio fratello? Come si può fare questo a un fratello?

Le ruote della moto sfrecciavano sull'asfalto bagnato, rivoli di pioggia mi scivolavano addosso come tanti piccoli fiumiciattoli, mi accostai nell'angolo di una strada, il motore acceso a coprire i miei singhiozzi. Stavo piangendo.

Ero solo un uomo distrutto che stava piangendo.

Cercai di convincermi che comunque, ora che erano stati scoperti, la loro relazione non sarebbe andata avanti. Le relazioni clandestine sono un fuoco fatuo destinato a spegnersi, ancor di più una storia con quei presupposti.

Provai a consolarmi pensando che prima o poi avrebbero pagato il loro conto, avrebbero espiato in qualche modo la loro colpa. Ma ancora non sapevo che, in realtà, mi stavo sbagliando. 

Ridammi indietro il cuoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora