Londra, diciotto anni prima
Mi schiacciavo contro la porta della stanza e restavo ad ascoltare finché la discussione si placava. Non sapevo se essere sollevata dal fatto che i miei genitori non litigassero mai in mia presenza, oppure preoccupata. La verità è che vivevo circondata dalla brutta copia di una famiglia, un surrogato affettivo di qualità inferiore rispetto a quello che avrebbe dovuto essere.
All'epoca non me ne rendevo conto perché avevo dieci anni e il concetto di sofferenza mi arrivava smorzato, tuttavia, anni dopo, mi resi conto di quanto la morte di Luke avesse messo a dura prova la resistenza della coppia Mary Anne-Paul.
Dal giorno dei funerali di mio fratello, tutto era cambiato in casa mia, a partire dalle fissazioni di mia madre per l'ordine e la pulizia. L'ossessione maniacale di controllare la sua vita e quella degli altri si era amplificata, specialmente nei miei confronti. Dopotutto, ero io l'unica figlia rimasta in casa, mio fratello maggiore, Matt, era sempre fuori per via dello studio, dello sport e degli amici. Lui aveva il vantaggio di essere maschio e per questo riusciva a godere di molte più concessioni di me; non era solo una questione anagrafica, mia madre aveva un metro e una misura diversi per rapportarsi a me rispetto che a Matt.
Io all'età di mio fratello ci sarei arrivata plasmata dai capricci di Lady Mary Anne. Delle volte mi sentivo fatta di argilla, pronta per essere modellata a sua immagine e somiglianza.
La difficoltà più grande restava quella di accettare l'idea che i miei genitori si odiassero. Lo sentivo il loro astio tutte le volte che alzavano la voce, non servivano delle spiegazioni dettagliate per farmi arrivare il concetto che mia madre e mio padre non si sopportavano più.
E allora perché davanti alla gente erano tanto amorevoli?
Questa era la domanda che ponevo a mio fratello le rare volte che riuscivo a incrociarlo nel tran-tran quotidiano.
«È il loro modo di volersi bene» mi rispondeva lui sottovalutando la mia preoccupazione, sentivo l'angoscia stringermi lo stomaco quando pensavo all'eventualità che mamma e papà potessero amarmi di meno. A volte temevo che fossi io la causa delle loro guerre notturne e l'ansia che ne scaturiva si condensava tutta dentro di me.
Lady Mary Anne si era raffreddata, di colpo, come se uno strano incantesimo le avesse sbrindellato il cuore rendendola una donna distante, algida, persino insensibile certe volte. Non che fosse mai stata chissà quanto affettuosa con me, ma nel corso degli anni il suo atteggiamento era peggiorato. Era diventata un'assidua frequentatrice della parrocchia vicino casa, mi chiedevo come fosse possibile pregare per così tanto tempo ogni giorno. Cosa aveva da chiedere al Signore? Parlare con lui e mostrargli devozione non ci avrebbe restituito Luke.
La vedevo andare via di casa verso le quindici del pomeriggio, con le sue calze velate color carne, la gonna lunga sotto il ginocchio, il cappotto abbottonato fino al collo e la sciarpa abbinata al basco di lana cotta. Era bella, devo ammetterlo. Era sottile come un giunco, i capelli biondo platino tagliati poco sotto le orecchie in un caschetto signorile, con la riga in mezzo. Mi sembra ancora di sentirlo il suo profumo quando mi passava davanti per un saluto veloce.
Una volta le chiesi: «Posso venire con te?»
Lei rimase a fissarmi, ebbi quasi la sensazione che non sapesse cosa rispondermi.
«Ti annoieresti, Elizabeth.» Il suo tono tradiva una leggera nota greve.
Che la mia domanda l'avesse colta alla sprovvista?
Interpretai la sua risposta come un modo gentile per non farmi perdere le ore migliori in giardino, sapeva quanto amassi scorrazzare all'esterno dopo aver fatto i compiti.
Così passarono le stagioni, senza grossi miglioramenti in famiglia. La guerra fredda era una costante compagna dei pranzi e delle cene quando mio padre era presente, il che non capitava spesso.
Paul McLean era il proprietario di una grande azienda per le energie rinnovabili, lavorava tanto, molto spesso oltreoceano, quando tornava, però, dedicava il suo tempo solo alla sua famiglia. Mi portava allo zoo, al cinema o da Harrods. Lo shopping con lui era diverso che con mia madre, potevo scegliere da sola cosa mi piaceva e cosa no, potevo gironzolare liberamente tra gli imponenti scaffali, restare qualche secondo col naso all'insù a curiosare tra le boccette colorate nei ripiani della profumeria. Andare in bagno per il semplice gusto di aprire le confezioni di prodotti sistemati sopra il marmo lucido.
Le luci mi accecavano, tutta quell'opulenza mi ubriacava e disturbava allo stesso tempo. Perdevo tempo ad ammirare le mogli dei ricchi clienti arabi agghindate come principesse, i miei occhi luccicavano abbagliati dallo sfolgorio delle vetrine.
Non ricordo una sola volta in cui io non sia stata bene con mio padre. Mi viziava senza mai farmi perdere il contatto con la realtà, ero una bambina più fortunata delle altre e lui me lo ricordava in ogni occasione, specie quando si risvegliava in me la natura capricciosa delle bimbette che dalla loro agiata esistenza hanno tutto.
Con gli anni imparai che il conto in banca non mi rendeva una persona migliore delle altre, solo più avvantaggiata nel vivere. Potevo sognare di visitare un posto e avere la possibilità di andarci davvero, potevo circondarmi di persone importati, avere un armadio enfio di vestiti, giochi e possibilità.
Del lato oscuro della ricchezza, però, non me ne aveva mai parlato nessuno. Sarebbe stata la vita, anni dopo, a mostrarmelo per quello che era veramente: un cancro che mangia dall'interno tutto ciò che di buono c'è in una persona. Anche la ricchezza ha un prezzo da pagare, e spesso la felicità ostentata non è altro che una forma diversa di povertà.
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Ridammi indietro il cuore
RomanceFlavio è un medico genetista di Milano in trasferta a Londra per un dottorato di ricerca finanziato dalla Kingstone University. Ha una fidanzata e un matrimonio alle porte. Chloe è una dottoressa fresca di laurea, scelta dall'università per entrare...