Capitolo 26 ~ Nora~ Giorno 9

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Finchè continuerò a sentire questo peso schiacciarmi contro non avrò pace.
Sono sicura che sia un segno, dev'essere così altrimenti non lo avrei incontrato.
Migliaia di  chilometri di distanza e quella possibilità su cento di incontrarci si è verificata proprio quattro giorni fa.
Mi odio, mi odio, mi odio. Mi odio perché è ancora nella mia testa e non riesco a mandarlo via.
Mi odio perchè ci ho sperato per troppo tempo anche quando la verità era evidente a tutti tranne che a me. Perchè sono stata stupida ad amarlo anche dopo e sono stupida a pensarci anche adesso.

Prendo a calci un sassolino di ghiaia nello spiazzo davanti alla clinica. Ripenso a ciò che mi ha detto Aubrey:

«Non devi andarci per capire se lo ami ancora, ma perché stai soffrendo. Hai il diritto di sapere. Lui è la tua questione in sospeso e non avrai pace finché non avrai risolto.»

Penso a tutti gli incubi, forse ha ragione.
È strano che gliene abbia parlato, ma avevo bisogno del punto di vista di qualcun altro dato che la mia mente è offuscata.
Avevo cercato di sopprimere quel sentimento in tutti i modi, eppure né gli antidepressivi o le sedute dallo psicologo sono servite a tirarmi su, figuriamoci cercare ancora delle risposte.

Fosse stato qualche mese fa al solo pensiero di trovarmelo davanti me la sarei data a gambe, e invece sono qui.

Faccio un respiro profondo e un passo avanti. Non mi importa di lui ma del mio bene. Anche se sapere farà più male so che devo farlo.

Mi dirigo a passo spedito verso l'androne e vado dalla segreteria, diversa dalla donna presente l'ultima volta.

«Salve, sto cercando una persona.» mi sento strana nel pronunciare queste parole e per paura che qualcuno mi senta sussurro a bassavoce il suo nome.
Mi guarda come se fossi pazza e poi digita qualcosa sulla tastiera.

«Secondo piano, stanza 22.»

Deglutisco e mi avvio verso le scale, le mie gambe sono cosi intorpidite che faccio fatica a piegarle. Nessuno mi sta obbligando, potrei anche andarmene e fare finta che non sia mai venuta. Devo essere forte.

Sono nel reparto maschile, davanti alla stanza M1. Ricordo quando stavo andando via spensierata ed è bastata una semplice carozzina ad attirare la mia attenzione a mandare tutto a monte.

"Aspetti" aveva detto all'infermiera.
Immagino che se avessi aspettato ancora si sarebbe rivolto a me e avrebbe pronunciato il mio nome con quell'accento nord-americano che amavo tanto, avrebbe continuato a guardarmi incredulo cercando in me dei cambiamenti. E ne avrebbe trovati fin troppi, tanto che avrebbe stentato a riconoscermi.
Forse mi avrebbe presa in giro come era solito a fare fingendo che non sia mai successo niente. Ma per me non è così.
Ha commesso uno sbaglio e non si può far finta che non ci sia perchè è talmente grosso da coprire i ricordi, i sogni e le distanze.

Una porta si apre e io sobbalzo. I miei piedi vorrebbero scappare e invece sembrano incollati a questo freddo pavimento di marmo.

Fortunatamente non è lui. Un signore sui cinquant'anni dal pigiama celeste e la vestaglia beige mi oltrepassa trascinando i piedi a fatica sul pavimento.

«Buongiorno.» mi dice cordialmente, e io ricambio il saluto.
Mi armo di tutta la forza che ho e muovo un passo, a questo punto continuo a comandare il mio cervello di non fermarsi.
Arrivo davanti la porta con sopra scritto a caratteri neri M22. È spalancata e dentro non si intravede nessuno.
Non è qui. Adesso posso andarmene e arrivare a lezione ad ascoltare il prof. Thompson per due ore di fi poi partecipare all'assemblea d'istituto dove si discuterà ancora una volta dei soldi rubati alla preside. Che poi la stanno facendo troppo sul personale; corrompere gli studenti con borse di studi e viaggi. A questo punto chi trova i soldi tanto vale se li tenga.

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