6. Porta anche lui.

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Greg non è riuscito a pensare ad altro che a quella faccenda fino a sera. Arrivato a casa era ancora totalmente immerso in riflessioni a quel proposito, e ha continuato sin dopo cena.
Non poteva rifiutare. Ma non trovava nemmeno il coraggio di acconsentire. E poi, soprattutto, pensava a, o meglio non riusciva a smettere di pensare, a lui: Mycroft.
Si è alzato dalla sedia su cui si era accomodato, ed ha aperto l'anta dell'armadio che non osava toccare da quando era finito ad abitare in quel monolocale. Ne ha estratto uno scatolone beige, di grandi dimensioni e sigillato con molti giri di scotch nero.
Dopo averlo aperto, ha fissato qualche attimo il ricco contenuto, incredulo della quantità di cose che aveva conservato intatte sino ad allora. Ha preso la prima agendina della pila, rilegata con una lussuosa copertina di pelle blu cobalto, e l'ha distrattamente sfogliata guardando quante parole e quanti scarabocchi contenesse. Era stata una psicologa, l'unica che avesse mai consultato, ad avergli suggerito di tenere un diario; lui aveva esitato a lungo a farlo, fino a che un giorno ne aveva sentito l'esigenza e aveva provato. Da allora non aveva più smesso.

Dopo qualche tempo di incertezza, durante il quale non ha fatto che fissare la copertina dell'oggetto, si è deciso; ha assunto un'espressione meno sognante, e soprattutto meno lieta; e iniziando dalla prima pagina, datata con un giorno che non gli ricordava assolutamente nulla, ha cominciato a leggere.

17 aprile 1984.
È proprio un caso sfortunato che io abbia finito ieri l'altro diario. Sicuramente questo è più bello, e in un certo senso è un sollievo poter scrivere in righe più larghe delle ultime; ma così mi sembra che la vicenda che mi tocca vivere in questo periodo sia spezzata. Anzi, non riesco a scrivere senza avere sotto gli occhi gli ultimi accadimenti.
Dunque ora, dato che questa roba non è destinata certo ad essere letta da nessuno, vedrò di scrivere quanto ricordo dei giorni scorsi.

Le parole scorrevano veloci sotto gli occhi dell'ispettore, che ancora una volta si è sentito trasportato a quei bei tempi. Non voleva sforzare la memoria per cercare di farsi tornare alla mente cosa mai poteva essere accaduto in quel periodo che risuonava funesto, dato che già l'aveva fatto una volta: sarebbe infatti bastato leggere quanto aveva scritto così tanto tempo prima, anche se aveva l'impressione di sapere già di cosa si trattava, perché in trent'anni aveva aperto quello scatolone diverse volte, e perciò l'ordine dei diari aveva da essere tutt'altro che casuale. Seduto a terra, solo, in mezzo alla stanza, con lo scatolone aperto davanti a sé, Gregory Lestrade ha continuato a leggere a mezza voce, per mantenere un certo contatto con la realtà attorno a sé, in quanto non voleva dover superare di nuovo un attacco di qualsiasi-cosa-avesse-avuto-pochi-attimi-prima.

Oggi è lunedì, e mettendo in chiaro che ieri sono tornato a casa dopo il tramonto, la prima domanda che mi sorge (quasi inconsciamente) è: dove sono stato fino a sera? E la risposta è: a casa di Mycroft.
Che io non abbia aggiunto nessun aggettivo a questo nome non è affatto una coincidenza; è un'indicazione del fatto che io di quel ragazzo non so assolutamente nulla, tranne com'è la sua casa e come appaiono i suoi familiari.
Penso che in tutta la mia vita non dimenticherò mai cosa è accaduto durante il nostro primo incontro - o meglio, in cosa esso stesso è consistito. Quello quindi costituisce qualcosa dal quale, di fatto, non mi posso liberare. Quello che vorrei scaricare, lo dichiaro, è invece l'ansia che mi è derivata da cosa quell'incontro (anzi, quello scontro) ha comportato.
Vedrò di essere un po' più specifico.

Come se d'improvviso i suoi occhi avessero smesso di funzionare, e avessero scelto volontariamente di non fargli più mettere a fuoco le parole appassionatamente scarabocchiate in quelle pagine, l'ispettore non è riuscito a continuare a leggere. Ha alzato lo sguardo; la tristezza che sentiva lo stava divorando dall'interno, come una malattia, seppure quei giorni non fossero stati poi così terribili come aveva avuto l'impressione fossero.
Non aveva bisogno di leggere quello che era accaduto quel giorno, quel 17 aprile: era stato il giorno della svolta, ma non della sua svolta.
Era il primo giorno della settimana, appunto, ed era proprio per questo che gli era toccato sforzarsi a camminare sul serio. Zoppicava, se lo ricordava bene; e aveva fatto una fatica suprema ad andare in bicicletta, dato che il motorino sarebbe stato pronto soltanto, almeno, il giorno successivo. Giunto a scuola, minimo metà scolaresca lo aveva fissato a bocca aperta, lo aveva indicato e aveva sussurrato all'orecchio degli amici - almeno, così gli era parso -; ma non riusciva a capire il perché.
Giunto all'imbocco del corridoio nel quale si trovava la sua aula, si era trovato improvvisamente circondato da una marea di persone, che aveva quasi subito riconosciuto per la banda di Hill. Si era guardato intorno accigliato, già temendo il peggio; i visi delle persone attorno a lui erano indecifrabili, certo tutt'altro che felici, ma nemmeno completamente minacciose.
Il tempo si era congelato; non sapeva cosa fare, e gli era parso di essere rimasto come ghiacciato per secoli, mentre attendeva una mossa da una persona chiunque di quella immensa cerchia.
Le sue gambe imploravano pietà già da un po', quando finalmente, timidamente, un ragazzo alle sue spalle aveva battuto le mani una, due, tre volte. In pochi attimi l'applauso aveva coinvolto tutti, e il volto del ragazzo era diventato rosso come se avesse preso fuoco.
«Bravo, Greg!»
«Sei stato grande!»
Il giovane scuoteva il capo, mantenendo lo sguardo incollato al pavimento. Si stava sforzando di non sorridere, perché la vittoria non la voleva vedere sulle labbra di nessun altro che su quelle di chi doveva dichiararsi sconfitto.
Vedendo la sua esitazione, un ragazzo gli si era avvicinato. Il suo nome era Arthur, ed era la persona più autoritaria del gruppo, ovviamente dopo Joseph, il capo. Con un semplice gesto aveva messo tutti a tacere, e prendendo sottobraccio Gregory lo aveva portato dove avrebbe potuto scambiare due parole in tranquillità con lui.
«Dov'è Hill?» aveva chiesto quest'ultimo d'un fiato, appena era riuscito a farlo.
«In ospedale, mi sembra... Ovvio». Il ragazzo aveva aggrottato le sopracciglia, bionde come i capelli, e guardandolo negli occhi, aveva continuato a parlare anche se era palese che l'altro aveva molte domande da porgli. «Lestrade, hai mostrato di avere molta più stoffa di quanta avremmo mai osato attribuirti. Siamo rimasti tutti molto colpiti da come la vostra "faccenda" è finita: parlo a nome di tutti noi, quando ti dico che avrai il nostro rispetto per le tue azioni, a patto che tu ovviamente non ti metta... In situazioni compromettenti». Pur non essendo affatto sicuro di aver capito, il giovane aveva annuito, e aveva aperto la bocca per parlare; ma Arthur non si era fermato nemmeno un secondo. «Saremmo tutti contenti se tu ti unissi alla banda più spesso. E, dato che crediamo che tu conosca quello sfigato... Porta anche lui. Forse l'abbiamo giudicato male». Il tono, l'espressione del viso ma anche le parole che aveva scelto di usare facevano intendere che era assolutamente certo di non aver sbagliato a considerarlo; e proprio per questo, in cuor suo Greg non aveva potuto che accettare la sfida. Secondo lui, nessuno era "nato per perdere"; e particolarmente, non gli riusciva di pensarlo di Mycroft Holmes, anche solo per la prima impressione che ne aveva avuto.





 Secondo lui, nessuno era "nato per perdere"; e particolarmente, non gli riusciva di pensarlo di Mycroft Holmes, anche solo per la prima impressione che ne aveva avuto

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