2.8 Abe, Ruru, Shiri, Nishi

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I passi di Nobu frusciavano pesanti nell'erba; i suoi pensieri si trascinavano sullo stesso ritmo, greve, solenne.

Non credeva che avrebbe mai rivisto quel posto, con le sue foglie viscose, la sua vegetazione folta, la penetrante fragranza di muschio che lo permeava. L'ultima volta era stato qui in primavera; il glicine grondava grappoli di profumata bellezza dalle pareti di roccia. Adesso, sembrava un rampicante come gli altri. Spoglio. Solo. Aggrappato a una parete costellata di crepe.

Quella notte era un corteo di gigli-ragno a spianargli il cammino. Il blu del cielo aveva reso violacee le loro corolle, che correvano come zampe di animale sotto le sue dita protese. Macabre presenze, pronte ad animarsi tra un raggio di luna e una pozza d'ombra. Come fantasmi.

Il giusto ornamento per quel luogo di morte.

Quando Hiroshi aveva deciso di non attraversare il ponte, in cuor suo il samurai aveva compreso dove quella scelta li avrebbe condotti. Non c'erano luoghi altrettanto riparati dove trascorrere la notte, nei dintorni: riposare alle sorgenti termali era la decisione più logica. Non avrebbe avuto senso opporsi. Per cosa, poi? Non c'era alcuna minaccia reale in agguato.

Nobu aveva tirato le redini del cuore e sepolto i ricordi sotto una roccia. Aveva aiutato Hiroshi e i ragazzi a preparare l'accampamento; era rimasto con loro finché aveva potuto. Alla fine, la presenza di quella capanna fatiscente gli aveva fatto salire un conato in gola. Il legno marciva, ma era rimasto in piedi. Perfino i disegni di Toitoi erano ancora lì, intatti: incisi con le unghie, impressi con i sassi e con i denti.

Aveva dovuto allontanarsi. Per riuscire a respirare.

Anche annegato nella notte, quell'angolo di mondo portava ancora dentro l'eco della battaglia che vi si era consumata cinque anni prima. Se toccava quella roccia, adesso, poteva sentirla umida del sangue dei suoi compagni. Se chiudeva gli occhi, udiva il sibilo dei serpenti, e le grida di chi moriva strozzato dalle loro spire. Davanti a sé rivedeva la sciamana, i capelli catturati dalla bufera scatenata dai suoi poteri incontrollati, gli artigli contratti come rami di un albero spettrale. Tra le mani di Nobu, adesso, pulsava ancora la katana che era appartenuta a Seishiro, vibrante, affamata di vendetta.

I Maestri dicevano che il tempo sapeva sciogliere ogni dolore, e ricondurlo entro i limiti di una serena accettazione.

I Maestri mentivano, o non avevano mai perduto il loro cuore.

Era vicino, molto vicino all'albero, adesso. Un castagno? Una quercia. Se era onesto con se stesso, non lo ricordava. Nella memoria erano rimaste solo le grandi fronde ombrose che gli sibilavano sulla testa, le foglie strappate dal vento che turbinavano tutto intorno mentre Nobu spingeva la lama nel petto della sua nemica. Se fosse stato in sé, dopo, avrebbe conservato una di quelle foglie come trofeo. C'era una strana poesia nel sangue che le macchiava. Come un morso precoce d'autunno.

Che cos'era, dopo tutto, quella stagione piena di contraddizioni, se non una preparazione al sonno eterno?

Adesso che era autunno per davvero, le foglie si distruggevano molli sotto i suoi sandali, invitandolo a proseguire fino all'imbocco di un regno che non era certo di voler visitare. Ma doveva vederla. Doveva sapere che tutto era ancora come lo aveva lasciato, cinque anni prima.

Quando scostò le fronde fitte degli arbusti, finalmente, trovò ciò che cercava.

Al tronco del grande albero - un acero dalle larghe foglie, come stelle rosse aperte sul suo capo - era ancora inchiodato il cadavere della sciamana, che il tempo aveva trasformato in uno scheletro. La natura l'aveva inglobata dentro la corteccia, come a reclamare il possesso sulle spoglie mortali di quella donna che aveva causato tanta distruzione e disequilibrio nel mondo. La natura aveva uno strano senso della giustizia, alle volte, ma non falliva mai nel riportare l'armonia dopo una catastrofe.

Fiore di Fuoco (#3 I Samurai della Spada Bianca)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora