1.14 Un padre

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Senza fiato, Kasumi strinse il medaglione nel palmo. Chi rappresentava la minaccia più immediata?
Eito, con la sua furia pulsante.
Mumei, con lo spettro di un sorriso sul volto bianco.
Non sapeva decidere.

«Come hai detto, monaco?» emerse, dura, la voce di Akagawa Ryōta. Mentre il daimyō si alzava di nuovo in piedi, la mano del capitano Jinpachi era già sull'elsa della spada: fece cenno ai suoi uomini di fermarsi, in attesa della risposta.

«Sensei» mormorò Kasumi, stringendo più forte la mano di Eito. Per tutta risposta, lui la strappò alla sua presa, e avanzò tra la folla, verso il punto il cui il daimyō, sua figlia e il promesso sposo si erano radunati. Coloro che erano prostrati fino a un attimo prima tornarono a ergersi nelle loro armature, con le spade accanto. Eito non aveva nemmeno il bastone.

La giovane donna si premette una mano sullo stomaco, quando vide il suo maestro fermarsi a due falcate dal daimyō. Le spade di tutti i guerrieri presenti si sguainarono in quel momento, puntandosi contro di lui. Quella di Saburo gli sfiorava la gola.

«Non è l'onore, ma la vergogna a ricadere sul clan Akagawa questa notte» disse Eito, imperturbabile. «Lasciate che una giovane donna, che ha tutta la vita davanti, affronti il drago al posto vostro. Che uomini siete? Con quale diritto chiamate questa ragazza vostra figlia? Questo non è il comportamento di un padre.»

«Un padre» intervenne Otoha, la voce pulsante dietro alla maschera di porcellana «consente ai propri figli di scegliere per se stessi, e rispetta le loro decisioni.»

Gli occhi neri di Eito si ammorbidirono, nel posarsi su di lei.

«Un padre non avrebbe manipolato il tuo senso di colpa per risolvere facilmente i suoi problemi. Un padre ti avrebbe portato in palmo di mano come la cosa più preziosa, e avrebbe dato la sua vita, prima anche soltanto di pensare a chiederti di rinunciare alla tua.»

La bocca di Kasumi si seccò. C'erano soltanto Eito e Otoha, adesso, in piedi sul padiglione: tutti gli altri erano statue di cera, accarezzate dal vento, prigioniere delle parole che i due non si erano scambiati. Tutte le figure, tranne le loro, tremolavano nello sfrigolio delle lanterne sull'acqua.

Il mezzo volto sano della ragazza era spezzato da un reticolo di dubbio, paura, amore, rifiuto: le irroravano la pelle tutti insieme, crepitandole fino allo sguardo. Stava vacillando. Minami premeva per uscire dal guscio di Otoha, e per un attimo Kasumi sperò che si sarebbe protesa a scostare quelle spade, e avrebbe abbracciato Eito, e tutto sarebbe finito come doveva.

Invece, la voce di Saburo spezzò il filo rosso che li legava, e riportò in vita le statue di cera.

«Inginocchiati, monaco, e invoca la pietà del daimyō.»

«Non chiederò perdono per aver detto la verità.»

Avrebbe voluto gridargli di tacere, inchinarsi, chiedere perdono e andare via da quel luogo, adesso. Dovevano raggiungere Hiroshi, tornare alla vita che conducevano prima. Ma sapeva che, anche se per assurdo al sua voce l'avesse raggiunta, Eito non avrebbe mai abbandonato Minami. Non così. Non a questo genere di destino.

Con gesti lenti, si sfilò uno spillone dall'acconciatura. Schiuse le estremità del medaglione; senza distogliere lo sguardo pulsante da Eito e dai soldati che lo circondavano, passò l'ornamento appuntito sulla melma gelatinosa che vi custodiva all'interno.

Il sussurro di Mumei le si inoculò nella mente, scrosciando tra le tempie come una cascata furiosa.

Povera Kasumi. Sola, in un mare di potenziale nemici. Statuaria nel suo kimono nero e argento, la kitsune la fissava da lontano, e sorrideva.

Fiore di Fuoco (#3 I Samurai della Spada Bianca)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora