1.7 Vuole uccidermi

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Otoha tremava. Sotto la roccia che aveva dato loro riparo per una notte e un giorno, le braccia secche di Rumiko intorno alle sue spalle non bastavano a tenere lontano il gelo che veniva da dentro.

Aveva ucciso un uomo.

Non provava rimorso.

Sapeva che avrebbe dovuto; ma no, nessun sentimento occupava quel vuoto. Con il passare delle ore, lasciò che il buco nell'anima si riempisse di un'acqua putrida e sporca, un lago di fango che saliva a saturarle i polmoni.
Nobu si era allontanato per cercare cibo. Aveva tentato di convincerlo che, nel suo stato, non avrebbe dovuto sforzarsi e tanto meno uscire sotto la pioggia: era stato tutto inutile. Il mutismo del samurai era la misura della sua ostinazione.

Lei e Rumiko gli avevano medicato la ferita, come avevano potuto.

Non era stato facile convincere il samurai a lasciarsi estrarre la freccia: erano state le mani ancora ferme di Otoha a farlo, ma da lì in poi era stata Rumiko a prendere il comando dell'operazione, a premere la manica della sua haori sullo squarcio sanguinante, a pestare le erbe della sua scarsella tra due sassi e a mescolare con l'acqua piovana un cataplasma che delle bende improvvisate avrebbero tenuto insieme. Otoha ringraziava i kami di aver trovato la sua dama, tremante, nascosta nel magazzino. Se fossero usciti dal Padiglione del Ginko senza di lei, quelle pratiche sarebbero andate perdute. Se Nobu fosse morto, Otoha si sarebbe macchiata di un altro delitto.

Lei non sapeva guarire. Era molto brava a distruggere, ad attirare l'ira di uomini e kami, a ferire con le parole quanto con le armi; guarire , invece, non era nella sua natura.

«Non è colpa vostra, mio gioiello, mia bambina» sussurrò Rumiko al suo orecchio.

«Non lo è?»

«No. Gli uomini sono superstiziosi e cattivi. Se non trovano il senso di ciò che accade loro, hanno bisogno di creare un mostro da odiare.»

«Non è stato difficile», rise Otoha, amara. «Avevano già il loro mostro.»

«Voi siete tutto fuorché un mostro. Il vostro viso è un segno della sofferenza che avete attraversato.»

«E di una prova che non sono riuscita a superare intatta. Questa faccia, Rumiko... questa faccia mi rende impura, e degna dell'odio di tutti.»

Le dita nodose le accarezzarono i capelli, stringendosi la sua testa al petto ormai rinsecchito.

«Non il mio. Mai, il mio.»

Per la prima volta da quando tutto questo era iniziato, Otoha sentì le lacrime premerle tra le palpebre serrate. Si aggrappò alle braccia dell'anziana donna, permettendole di cullarla come quando era bambina. Era stata Rumiko a consolarla, dopo l'incendio. Rumiko, ad applicarle gli unguenti sulle bruciature ancora fresche. Rumiko, l'unica tra i servi di suo padre che aveva accettato di seguirla al Padiglione del Ginko, e di servirla nell'isolamento. Era così grata di averla accanto.

Nobu tornò con due lepri strette per le zampe posteriori, e la katana che gli pendeva al fianco. A Otoha non piacque il pallore del suo volto: nemmeno l'espressione determinata del samurai bastava a celare i segni della sofferenza.

«Vieni qui» ordinò. «Lascia che Rumiko ispezioni la ferita.»

Lui scrollò le spalle, e contrasse la mascella appena compiuto il movimento. Che stupido orgoglioso.

«Ti ho impartito un comando, Katakura Nobunori. Non hai sentito la tua signora?»

Gli occhi cupi di lui la squadrarono; gettò di lato le lepri e prese ad armeggiare con la buca nel suolo, dove avevano acceso il focolare che aveva permesso loro di non congelare, la notte prima. La buca era sembrata a Otoha una bizzarria bella e buona, ma Rumiko, che era stata moglie di un arciere, sosteneva che fosse una strategia perché il fumo non si levasse alto, e il bagliore del fuoco non potesse essere intercettato da lontano.

Fiore di Fuoco (#3 I Samurai della Spada Bianca)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora