2.15 Senza frutto

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Otoha sprofonda. Ancora, e ancora.

Il respiro è fermo nella gola. Bruciava, all'inizio. Ora non più. L'acqua le preme contro le orecchie, suonando un ritmo sordo contro i suoi timpani. La pressione è costante; tuttavia, ha l'impressione che si ripercuota su di lei a ondate, come una spatola sulle corde tese dei suoi pensieri. Vibrano senza sosta, ma la loro musica è muta.

Dovrei essere morta, a quest'ora.

Quanto a lungo si può cadere, prima di raggiungere il fondo?

Mumei-sama? Siete ancora con me?

La mano pallida della kitsune emerge dal buio bluastro. La voce non è fredda, non è nemmeno irridente. Al contrario: le accarezza l'anima.

Sempre, Micchan.

Non è così che dovrebbe sentirsi, accanto a uno yōkai. Tranquilla. A casa. Cullata in un abbraccio che vuole davvero il suo bene, nient'altro che la sua felicità. Le mani di sua madre, Miyu, una volta avevano dentro le stesse promesse. Nei sogni, solo il profumo di camelia tra i capelli di Ai le rievoca una simile sensazione.

Quante madri ha, Otoha. Una per ogni volta che è venuta al mondo.

Eppure, stavolta è diverso. Non è certa che le sarà concessa un'altra occasione per rinascere, e, anche se fosse così fortunata da uscirne viva, non crede che ci sarà un abbraccio aspettarla. Risputata dalle tenebre, spaventata e piangente, forse dovrà cullarsi da sola, cantarsi una ninna nanna e dirsi che andrà tutto bene. No, questa volta è davvero lasciata a se stessa. Nemmeno la kitsune può aiutarla a rigenerarsi. Tutto ciò che Mumei può fare per lei è aiutarla a tenere insieme i pensieri, mentre resta in quel grembo sospeso tra passato e presente, tra realtà e possibilità.

Otoha si abbandona. Smette di concentrarsi nel respingere l'acqua: lentamente, diventa parte del lago. Ogni segmento del suo corpo si disgrega. Non è più niente. È insieme al tutto. Non è mai stata più infinitesimale nei meccanismi del cosmo, eppure respira con il respiro del mondo, sostiene le ossa di roccia di quella grotta, è parte delle nuvole e del palazzo celeste. È fango ed erba, è riso e fiore. Non ha più nome. È quasi una dea.

In quella comunione di percezioni, focalizza un momento in tutto lo scorrere del tempo, uno scorcio particolare nelle scheggie del vissuto. Un prato. Rami carichi di fiori di ciliegio, delle più delicate tonalità rosate, che si stemperano in un bianco caldo alle estremità.

C'è una giovane donna, seduta su una coperta. Indossa un kimono di pregiata fattura, ha i capelli acconciati in maniera impeccabile. Poco lontano, una serva dispone le ciotole di legno dove è conservato il suo pranzo. La giovane donna osserva la fioritura: ha addosso una tristezza che le appesantisce gli anni.

Riconosce quel viso. È il suo. Ciò che sarebbe, almeno, se la cicatrice non la deturpasse. Sta osservando la vita di Minami.

Accanto a quella che, una volta, era la figlia di un umile samurai, oggi cicalecciano molte dame da compagnia. È questo che si confà alla consorte del grande signore di Hasa. Eppure, quello stuolo di dame non fa che schiacciarla, con ogni gesto premuroso, con ogni inchino reverente. La criticano alle spalle, per tutte le mancanze che non ha ancora colmato come signora del castello. Nessuna, tra loro, vuole davvero il suo bene.

Minami guarda i fiori rosati e prega che quei petali diventino bianchi come il ghiaccio. Se sarà ostinata abbastanza, quella collina fredda su cui il sole splende con tanta parsimonia diventerà la dolce foresta di betulle dietro al santuario dov'è cresciuta, nell'isola di Ō. Anche con la montagna a precluderle l'orizzonte, non si è mai sentita fuori posto, laggiù. In quel luogo tutto le era dovuto, la vita era semplice, le decisioni non strappavano il cuore.

Fiore di Fuoco (#3 I Samurai della Spada Bianca)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora