1.2 In controllo

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La strada che conduceva al piano superiore grondava sangue.

Sui corpi dei cortigiani non era visibile una singola freccia, né un colpo di spada. A martoriarli erano innumerevoli segni di morsi, lacerazioni di artigli, e arti strappati che giacevano troppo lontano dai cadaveri a cui appartenevano.

La bestia li stava aspettando, e aveva srotolato sotto i loro piedi un tappeto rosso.

I sandali di Hiroshi si immersero in quella fanghiglia umana. A ogni passo, le dita stringevano il wakizashi un po' più forte.

Per Micchan, e i suoi fiori tra i capelli.
Per la mia sorellina, perché voglio vedere il suo sorriso.
Misericordia del Buddha, fammi arrivare in tempo.

Si fermarono, incerti su quale corridoio imboccare. La distruzione era stata seminata indistintamente: non c'era sentiero che li portasse con certezza da Mumei.

Yasu annusava freneticamente l'aria, per discernere il sentore della sua nemica mortale. Eito fissava il cane con una durezza che Hiroshi non ricordava di avergli mai visto in viso.

Kasumi gli afferrò debolmente la manica. Il giovane uomo incontrò i suoi occhi, infossati nello sconcerto e nella rabbia.

«Stai bene?» sussurrò.

«No.»

«Vuoi...»

Il tantō rigirò tra le mani della ragazza. «Voglio uccidere la kitsune con le mie mani.»

Le orecchie di Yasu si piegarono, il collo si appiattì lasciando emergere le scapole sulla schiena. Le labbra nere scoprirono un ringhio furioso: il muso puntava verso il corridoio di destra. La mano di Eito si calò sul capo dell'animale, con una cupa parola di ringraziamento. Sul drappo stretto al suo polso, il rivolo rosso si era propagato, ramificandosi nella trama della stoffa.

«Kasumi?»

«Sì, sensei.»

«Resta qui.»

«No...vi prego. Lasciatemi venire con voi, sensei. Devo farlo.»

«Minami non è tua sorella.»

«Ma Hiroshi è mio fratello. Siete la mia famiglia, ed io...»

La supplica della ragazza fu interrotta dal canto che scosse i pannelli smaltati, le colonne di legno, le stesse fondamenta di pietra del castello. Una melodia dolce e terribile. 

Le ossa gli ghiacciarono, nel riconoscere a chi appartenesse quel timbro languido e irridente.

Eito. Da quanto tempo.

Il potere spirituale di suo padre si gonfiò in un'onda, e si ingigantì al ritmo del respiro. Hiroshi gettò lo sguardo su ogni anfratto del soffitto, ogni angolo cupo, ogni piega tra le vesti dei cadaveri. La voce proveniva da ognuno di quei luoghi, e da nessuno.

Vieni... gioca con me. Ho portato la mia nuova bambola. Vediamo quanto tempo ci metto a spezzarle tutte le ossa della mano?

Seguì il grido di dolore.

Una donna.

Minami?

Si buttarono nella direzione da cui proveniva il suono, e trovarono lo shoji già spalancato. All'interno della stanza, le torce arsero più forte al loro ingresso. Una scintilla balzò dal fuoco contro il paralume di carta, incidendo un buco nero nel bianco dello schermo.

Mumei sorrise: la ciocca candida tra i lunghi capelli neri rispecchiò la lucentezza delle sue zanne, che emergevano dalla bocca dischiusa in un'espressione di lascivo disprezzo. Tra le braccia della kitsune stava la signora del castello. Aveva un viso troppo giovane, su cui il trucco era colato nel pianto e nel sudore.

Fiore di Fuoco (#3 I Samurai della Spada Bianca)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora