2.16 La Concubina

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Le parole del ragazzo restano con Minami per ore, anche quando l'ha da tempo congedato, promettendo che otterrà quell'udienza a suo nome. Sente su di sé lo sguardo furente e preoccupato di suo fratello, che non ha chiesto scusa prima di andarsene. Non lo fa mai, quel cocciuto di Hiroshi. Non importa che ora Minami sia la signora del castello, la moglie del daimyō, la donna più importante di Kaneshima e dell'intera regione Kusaga.
L'Imperatrice di Mezzo.
A volte è così che chiamano suo marito, sussurrando: Date Saburo, lo shogun delle isole centrali. Un titolo non ufficiale, ovviamente. Uno che puzza di tradimento.

Cammina sola, per i campi. Ha portato un semplice arco di bambù e la freccia cerimoniale che le ha regalato Atsushi. Ha ordinato alle dame di non seguirla, ai servi di lasciarla andare senza una parola al suo signore: se la tradiranno, al suo ritorno a palazzo li farà frustare tutti quanti. Non ha mai chiesto alle guardie di alzare un dito sui suoi sottoposti. D'altronde, non ha nemmeno mai infranto una sola promessa.
I servi di palazzo lo sanno, le parole di Shimizu Minami non sono mai a vuoto.

Otoha è l'unica a seguirla, non vista; fatica a stare al suo passo, veloce ora che la costrizione del kimono ha lasciato il posto alla libertà degli hakama. Non ha bisogno di chiedersi cosa le passi per la mente. Lo sa.

Se solo gli avesse dato un figlio, forse oggi Saburo non sarebbe ridotto in questo stato.

Se avesse potuto sollevare il pensiero della successione dalla sua mente, oggi sarebbe un uomo diverso. L'attuale miseria del feudo è riflesso del suo fallimento, come donna, come moglie.

Perché sua madre ha messo al mondo tre figli, mentre a lei non ne è stato concesso nemmeno uno?

Si asciuga una lacrima. Nel cambiarsi da sola, in fretta, ha dimenticato di togliere il fermaglio con le catene di fiorellini. La seta bianca le sfiora le guance.

Otoha le poggia una mano sulla spalla, anche se Minami non può sentirla.

Mi dispiace. Sono stata arrabbiata con te per tanto tempo... credevo che la tua vita fosse perfetta. Essere bella non ti ha risparmiata in nessun modo dal dolore, solo ora me ne rendo conto.

Al suo fianco, Mumei incrocia le braccia.
E questo non è ancora nulla, ragazza. Le sfide che la attendono sono molto più ardue, e la faranno sanguinare.

Otoha guarda il corpo semitrasparente della kitsune; quindi, rivolge lo sguardo di nuovo sulla propria mano. Pare quella di un fantasma.

C'è qualcosa che posso fare per lei?

No. Ma c'è molto che lei può fare per te.

E cosa?

Taci, e guarda.

Minami incorda. Nel farlo, respira profondamente: ingloba parte del tutto, mette in comunicazione il suo ki con le energie esterne. La pelle è una rete, la forza vitale del mondo è l'acqua che l'attraversa senza sforzo. Quando alza l'arco di bambú, sta connettendo il cielo con la terra. Inclina il gomito in una linea precisa, armoniosa; pare che solo le mani lavorino, mentre gli altri muscoli non compiono alcuno sforzo. Otoha si incanta a guardarla. Minami fa apparire quel movimento semplice, come se non le costasse fatica e nemmeno concentrazione. Un'arte senz'arte. Ricercata a tal punto da sembrare sbadata. Studiata con tanto meticoloso ardore da apparire una naturale conseguenza dello scorrere del tempo.

E ora? Come puoi incanalare questa bellezza in un tiro che sia anche letale?  Io voglio essere entrambe le cose. La grazia e la forza. Il rito e la battaglia. La sacerdotessa e il proiettile.

Tu sei già entrambe le cose, Otoha.  

La voce di Minami somiglia alla sua. Ma ha quel delicato, pastoso accento delle isole del sud, così simile al modo in cui parlano Hiroshi, Kasumi ed Eito. C'è una nota diversa sul fondo di quella vibrazione, un tocco solo un poco più acuto.

Fiore di Fuoco (#3 I Samurai della Spada Bianca)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora