Capitolo 35: La Cupola dei Gigli Astrali – parte 2
Più cercavo di concentrarmi più le immagini apparivano sfocate. Era difficile capire cosa davvero fosse importante e cosa no.
La prima immagine che mi apparve sembrava uscita da un film in bianco e nero.
C'era una donna di una bellezza disumana. Era seduta in un prato, ma questo poco si riusciva a scorgere per via dei suoi capelli biondi che lo inondavano. Erano così lunghi da non avere una fine, così come la sua veste di pizzo.
Più elegante di una sposa, più regale di una regina, se ne stava lì seduta per terra a confortarmi.
O meglio, confortava una versione giovane di me, Selene. Le parole non mi giungevano del tutto chiare, ma riuscì a captare il sunto del discorso.
Lei sarebbe stata sempre al mio fianco e a tenermi compagnia ci sarebbero stati i miei fratelli. Questi però apparivano come due figure seduti all'ombra di un albero, di cui non riuscivo a scorgere i volti. Mi impegnai a riconoscere i loro tratti, ma la visione cambiò.
C'ero di nuovo io. E sembravo al quanto depressa. Mi avvicinai a quella me stessa rannicchiata sotto ad una finestra, guardandomi cautamente attorno. Nessun altro pareva trovarsi in quella stanza, che sembrava appartenere a qualche Re del settecento.
Non vi erano guardie, né uomini pronti ad attaccarmi eppure piangevo. Non ero depressa realizzai, ero disperata. Non ne sapevo la ragione, ma l'empatia di quel ricordo era così forte che presto mi ritrovai anch'io a piangere desiderando di essere in qualunque luogo, tranne che lì.
La me stessa di quella visione era come una nuvola al tatto, si disintegrava e ricreava non permettendomi di consolarla o far davvero qualcosa.
Dalla finestra riuscivo a scorgere un cielo notturno e tanto limpido che si riuscivano a scorgere i più piccoli dettagli della Luna.
E poi tutto cambiò di nuovo. Per un attimo neppure me ne accorsi, la Luna era sempre la stessa, luminosa e fiera in quel cielo stellato. Poi però avvertì il suo tocco. Senza neanche girarmi, sapevo che l'uomo delle visioni mi stava abbracciando, su quel terrazzo palesatosi dal nulla.
Lo scenario era anche un poco differente dal primo. Ora riuscivo a scorgere case e alture, oltre che al cielo.
Avevo la pelle d'oca, eppure il calore di quell'abbraccio mi bastava, cullava il mio cuore e rasserenava il mio spirito in modo a tal punto da non valutare più nulla, nella stessa misura di prima. Tutto sembrava più bello, anche la Luna seppur fosse sempre la stessa.
Avrei voluto perdermi in quel sogno, restare lì, tra le braccia di quel uomo che il mio cuore tanto bramava, ma il mio corpo cominciò a bruciare.
Mi dibattei, resistetti per godere ancora un attimo del suo tocco, ma il dolore mi stava consumando.
Mi ritrovai ancora in quel lavandino, senza più fiato. Tirai su la testa dall'acqua, tanto che il panico della morte si insinuava nei miei arti.
Avevo visto così tanto, ragionai lasciandomi ricadere sul pavimento, eppure era stato solo uno scorcio.
E quell'uomo... la disperazione tornò a farsi largo sul mio volto. Che fossi una Kerres o meno avevano ragione, ero diversa.
Non sapevo come, ma potevo dire senza ombra di dubbio che la prima visione, quella della donna, risaliva a tempi in cui gli esseri umani non esistevano. La Terra, e il profumo che per un attimo aveva inondato le miei narici, era del tutto diversa da quella su cui ero abituata a vivere.
«Non posso andare avanti in questo modo...» mormorai al mio riflesso, sciacquandomi il viso.
Uscì dal bagno, indossando una vestaglia, sopra alla camicia da notte.
«Non posso neppure aspettare un'altra visione.» ragionai, Rischierei di perdere del tutto la testa, se questa mi mostrasse fatti che non sono pronta a vedere.»
Cercando di produrre il minimo rumore, impugnai la maniglia della porta e l'abbassai, lasciandola socchiusa alle mie spalle ed inoltrandomi così nel corridoio.
Iberide dormiva, con la porta aperta, nella stanza accanto alla mia. Si era deciso finalmente a spostarsi dal corridoio e non avevo nessuna intenzione di avvisarlo del mio vagabondaggio notturno.
Ogni tanto udivo qualcuno russare o parlottare, forse nel sonno, ma fui fortunata a non incontrare nessuno.
Scesi le scale, quanto più velocemente, che conducevano alla stanza dove Calla tempo prima mi aveva consegnato l'abito per il Festival.
Lei avrebbe saputo certo aiutarmi, ne ero fermamente convita, ed era tale sicurezza a far muovere le mie gambe.
Poggiai la mano sul fiore disintegrato e in fretta mi lasciai inghiottire dalle tenebre.
Come se fosse un'azione del tutto normale, una volta aver chiusa la porta alle mie spalle, accesi la luce.
La stanza era esattamente come l'avevo lasciata, ma prima del Festival non ne conoscevo l'esistenza, figuriamoci la posizione dell'interruttore.
Il mio respiro a quella constatazione si fece veloce e impreparato alla paura che colava indistinta nella mia mente. Mi sedetti mal ferma su di una poltrona, cercando di calmarmi, ma il mio cuore batteva all'impazzata e gli arti sembravano intorpidirsi.
Spostai lo sguardo sulla stanza e cominciai a contare, nel tentativo di rilassarmi e calamitare la mia attenzione su qualcosa che non fosse la mia respirazione.
«Due candelabri, otto cassetti, due cassepanche... tredici, no quattordici soprammobili, due librerie.» mormorai contando e recuperando un poco fiato.
«Un tappeto, quattro poltrone, due tavolini, due finestre e due scale.» dissi, soffermandomi su queste.
La stanza non era davvero una stanza, ma solo un corridoio lussuoso notai, che portava a due scale perfettamente identiche.
Ne aveva già visto una, dalla camera di Iarlaith.
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Kaos
FantasyDal capitolo 8: Parve quasi sul punto di dire qualcosa, ma poi ci ripensò, « andrete all'Accademia » mi rivelò in fine. « All'Accademia? » ripetei sperando di aver capito male. Non volevo tornare trai banchi. « è l'unico posto sicuro al momento. Ver...