Capitolo 6 - Per lo più precipita nel suo destino chi fugge. Tito Livio
Stavo semplicemente impazzendo, ma neppure ammetterlo mi dava una qualche sorta d’aiuto.
Volevo ricordare.
Il senso di disagio, che provavo, nei confronti di quelle persone, che mi osservavano, e all’apparenza parevano conoscere ogni parte di me, mi inquietava.
Infondo ero morta. Era un dato di fatto, che ero persino riuscita a far ammettere a Moho.
O forse no. Forse ero in coma, per via dell’operazione che mi era stata apportata, come conseguenza all’incidente, quindi questo era tutto parte del mio inconscio, un minestrone di informazioni che articolate tra loro avevano prodotto questo mondo, plasmandolo sulle mie preferenze letterarie e artistiche.
Era solo un lungo sogno e dovevo trovare il modo di uscirne.
Ma come? Se avessi domandato per una via di fuga, probabilmente avrei fatto cambiare qualcosa. Avrei azionato un meccanismo di difesa, poco ma sicuro, che mi avrebbe tenuta bloccata in quel posto per chissà quanto tempo.
Senza accorgermene diedi una gomitata alla forchetta, e il suo tintinnare sul pavimento ruppe il mio flusso di pensieri, riportandomi nella sala degli aranci.
Felce si alzò immediatamente, sostituendo la posata caduta con un’altra.
<< C’era ancora la regola dei cinque secondi… >> dissi rivolgendomi a lei con un tono al quanto smarrito, nel rimprocciarmi a quella che era divenuta la mia nuova realtà.
<< Come dite? >>
Vidi Edera darle una gomitata e subito questa riformulò la domanda dandomi del “tu”.
Sentì Moho ridacchiare, mi girai verso di lui.
Il bambino che avevo salvato era l’ultima cosa che avevo visto, il mio cervello doveva averlo associato per via dei suoi capelli e dei suoi occhi, all’uccello che avevo disegnato nel giardino della scuola.
<< Adesso permetti loro di esser con te in confidenza? >> disse scoccando un’occhiata che fece arrossire entrambe le cameriere, << Non che non sia stupito anche del fatto che siedano a tavola con noi >> continuò, mentre prendeva della marmellata, da spalmare su una fetta di pane tostato.
<< Non ci vedo nulla di male, c’ è un sacco di cibo a disposizione, e mi fanno sentire vecchia dandomi del “voi” >>
Lui mi guardò senza capire, << ma tu sei vecchia Sel. >>
Avevo appena compiuto diciassette anni, come poteva affermare una cosa del genere? C’era anche da dire però, che era un bambino e forse ai suoi occhi apparivo realmente come diceva…
<< Quanti anni dimostro? >> volli comunque sapere.
Forse lo specchio, nella mia stanza, mi aveva mostrato un’immagine di come credevo di essere, ma non di come realmente ero.
<< Direi sedici, diciassette anni >> rispose squadrandomi.
<< Allora perché dichiari che io sia vecchia? >> continuai, senza capirci più nulla.
<< si, forse hai ragione >> constatò lui.
Uno strano sollievo mi pervase, in fondo a quale adolescente sarebbe piaciuto esser definita “vecchia”?
<< cioè >> riprese il discorso dopo aver addentato la fetta di pane, << la maggior parte di noi ha all’incirca venti, trenta mil alle spalle, tu ne porti solo quattro, quindi si, in fin dei conti sei molto più giovane di noi >>
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Kaos
FantasiaDal capitolo 8: Parve quasi sul punto di dire qualcosa, ma poi ci ripensò, « andrete all'Accademia » mi rivelò in fine. « All'Accademia? » ripetei sperando di aver capito male. Non volevo tornare trai banchi. « è l'unico posto sicuro al momento. Ver...