Capitolo 10

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Ancora lì, perso nella notte, affannava alla ricerca della strada e si chiedeva se Adalric, quell'amico che considerava come un fratello, fosse riuscito ad allontanare lo Spirito Impuro. Non sapeva che direzione prendere, come orientarsi, e continuava a lottare contro la voglia di tornare indietro, verso il Titisee. Le gambe stanche, la testa pesante, il cuore afflitto. Pensava a Damian, al giorno dell'esecuzione, all'ultima volta che era riuscito a respirare la sua stessa aria.

Là, al centro della piazza, nascosto tra la folla e confuso tra i molti, con un mantello cencioso sulla testa, aveva visto la sua ruzzolare via subito dopo il calo della lama del boia. Poi il sangue che colava lungo l'argento, che gocciava e si univa come chicchi d'uva alla grande pozza rossa, che riposava accanto al ceppo. Ed era fuggito.

Un vigliacco, un topo delle fogne, un principe senza più un Regno dove tornare, che si preoccupava solo di restare in vita, mentre la paura gli scuoteva le membra.

Allora, si disse, non meritava che Adalric gli facesse da scudo.

Deglutì e si fermò accanto al tronco di un faggio. Lo sguardo deciso e il mento alto, prese a respirare pesantemente e portò subito la mano sull'elsa, sentendo un fruscio provenire dalle sue spalle. Conscio di non poter combattere uno spirito con le armi umane, si fece comunque coraggio e serrò i denti. Sfoderò la spada e si voltò, tenendola ben dritta. «Chi siete?» domandò, accorgendosi di averla appena puntata al collo di una ragazza.

Lei tremò nell'ombra. Gli occhi sgranati dal terrore, si guardò indietro come se avesse il diavolo alle calcagna e poi tornò a fissare la punta acuminata. «Dietricha» balbettò. «Lasciatemi andare, ve ne prego, sono in pericolo.»

Erdmann corrugò la fronte e abbassò la spada, vedendola subito scattare in avanti, tra gli alberi. Poi seguì il fruscio della sua gonna e provò una strana sensazione al centro del petto. Non poté fare a meno di frenarne l'avanzata, la bloccò per un polso e mormorò: «Aspettate, avete detto di essere in pericolo». La vide annuire nell'ombra e subito chiese: «Da cosa state scappando?».

«Voi non lo conoscete ed è meglio così, andatevene.»

«E lasciarvi da sola nella Foresta Nera? Non se ne parla.» Negò con la testa, infine disse: «Non so cosa vi sta inseguendo, ma non mi spaventa. Conosco cose ben peggiori degli esseri umani».

«Non sapete di cosa state parlando» borbottò, distolse perfino lo sguardo.

«Neppure voi.»

Lei serrò le labbra, inspirò a fondo e poi si lasciò sfuggire un rantolo basso, una domanda malferma: «Perché ci tenete tanto ad aiutarmi?».

Erdmann si strinse appena nelle spalle. «Chiunque aiuterebbe una ragazza in difficoltà» disse piano, avvicinandosi di un passo e facendo scivolare le dita verso il suo palmo. «Non voglio essere da meno delle aspettative.» Accennò un sorriso, poi le fece strada tra gli arbusti.

E lei gli fu subito dietro. Il passo deciso, incalzante, chiese: «Come vi chiamate?».

«Erdmann.» Le lanciò un'occhiata veloce, chiedendosi se fosse possibile rivelarle la sua identità, tuttavia non aggiunse altro.

«Erdmann» ripeté sottovoce. Ne osservò le spalle, poi il braccio, infine la mano che si stringeva con premura alla sua, e mormorò: «Una volta conoscevo qualcuno che si chiamava come voi».

Turbato, lui aggrottò di poco le sopracciglia. Si chiese chi fosse questo sconosciuto, perché nessuno aveva mai osato chiamare suo figlio con lo stesso nome di un nobile. «Da dove venite, Dietricha?»

«Donaueschingen.»

«E siete sicura di conoscerlo, questo Erdmann?» incalzò.

Corrugò la fronte e provò l'impulso di allontanarlo; tuttavia non lo fece e continuò a camminargli dietro, a un passo di distanza. «Certamente» disse. «Non capisco perché dovrei mentire su una cosa del genere.» Ebbe come l'impressione che si stesse innervosendo, così si lasciò andare a un breve sospiro e spostò gli occhi verso la vegetazione. In un mormorio, confessò: «Mi ricordo il suo nome, ma non il suo viso».

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