Capitolo 28

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Li aveva disegnati tutti sul bordo di una pergamena, mormorando le parole scritte sul Grimorium Verum di Rasputin, e poi li aveva strappati e consegnati loro, infilando il proprio in tasca per dare il buon esempio. Un sorriso teso, il cuore che gli batteva forte nel petto, infine il suo soffio deciso sulla candela per mettere fine al piccolo rituale dedicato al Sole.

In fermento, attese il calare della sera e solo allora si spinse fuori la porta. Uscì per primo, si guardò attorno circospetto, poi fece un cenno col capo per spingerli a uscire. Disse: «Via libera, non c'è nessuno». I muscoli tesi, brucianti lungo la schiena, e il viso contratto in una smorfia nervosa. Si passò una mano dietro il collo, cercò di massaggiarsi la nuca indolenzita e guardò Helmine che, a distanza, se ne stava seduta sulla sua sedia senza proferire parola; gli occhi bassi, le labbra sigillate, il dolore impresso nello sguardo vuoto.

Erdmann varcò la soglia senza emettere un solo suono, promettendo a se stesso che avrebbe ricambiato il favore qualora fosse stato in grado di farlo. Poi sentì le dita di Dietricha stringersi sulla sua spalla destra e sussultò appena. Voltandosi, le vide portare un indice alle labbra e subito corrugò la fronte, inclinò la testa, si chiese cosa volesse dirgli.

«Qualunque cosa succeda, sappi che ti voglio bene» mormorò.

Trattenne il respiro, aprì e chiuse le labbra senza riuscire a rispondere e sentì uno strano bruciore sul palato, dietro le narici. «Damian» sussurrò.

«Non è colpa tua, hai fatto quello che dovevi fare.» Batté il palmo contro il suo mantello, poi sollevò un angolo delle labbra e si strinse nelle spalle. Le palpebre appena abbassate, si lasciò andare a un sospirò e lo superò, seguì Adalric lungo la strada deserta.

Erdmann rimase senza parole, osservò la sua schiena ritta e per un attimo si chiese come fosse possibile che lui, suo fratello, si trovasse proprio lì, in quel corpo così diverso. Eppure, si disse, era stato il primo ad accorgersene. Non che ne dubitasse, ma stargli accanto in quel modo, dopo aver trascorso una vita insieme in altri panni, era decisamente strano.

Serrò i denti, ricordò ciò che avevano detto i demoni quando ancora era rinchiuso nella cella e sentì echeggiare quelle accuse nella testa: "Mi fidavo di te, fratello".

«Cosa fai lì impalato?» domandò piano Adalric, guardandolo.

Lui si riscosse, batté perfino le palpebre e deglutì. Sollevò un angolo delle labbra muovendo appena i baffi corvini, e si lasciò andare a una risata leggera, sommessa. «Hai ragione, scusa» borbottò. Raggiunse Dietricha, le lanciò un'occhiata veloce e poi chinò il mento, si strinse nel mantello. «Dobbiamo sbrigarci, non perdiamo tempo.»

«Detto da qualcuno che fino a poco prima stava guardando chissà cosa, sembra una battuta di spirito» commentò Adalric sottovoce.

Storse la bocca in una smorfia, poi si massaggiò il collo e sospirò. «Stavo pensando» ammise. «Niente che possa riuscire a fermarci.»

«Molto bene» assentì lui. Fece un gesto veloce con la mano, lo spronò ad avanzare, ad accelerare il passo, e riprese a muoversi lungo la strada. «Sai, non conosco bene questo rituale e non so se abbia o meno una durata limitata» iniziò a dire, aggrottando le sopracciglia. «Preferirei raggiungere la Foresta Nera il prima possibile, magari prima dell'alba.»

Erdmann gli fu subito vicino, disse: «Non sarò io a metterti i bastoni tra le ruote, amico mio». Lo vide sorridere con un po' d'incertezza, così gli diede una piccola pacca per cercare di motivarlo e continuò: «Vedrai che andrà tutto bene. Non è la prima volta che facciamo questa strada per rintanarci lì, no? Magari possiamo evitare di arrivare sulle rive del Titisee, perché ormai non sembrano più sicure come un tempo. Potremmo restare tra gli alberi, potremmo confonderci e...»

«Ed essere scoperti lo stesso» mormorò Dietricha.

Loro due si fermarono, quasi impallidirono; Adalric strabuzzò gli occhi e, guardandola, schiuse le labbra. Provò a dire qualcosa, ma non ci riuscì e venne interrotto di nuovo con un:

«Non siamo al sicuro, non lo saremo mai e in nessun posto».

Allora Erdmann soppesò quelle parole, si guardò attorno e chiuse gli occhi. Al limite dell'esasperazione, considerando quanto la sincerità di suo fratello fosse sempre stata brutale e rinomata, trattenne uno sbuffo. «Cosa proponi?» azzardò.

«Chiedere aiuto.»

Lo sguardo di Adalric si fece interrogativo, le si puntò contro in un lampo e prima ancora che la domanda potesse scivolargli di bocca. «A chi vorresti chiedere aiuto?» mormorò.

«Alla vera Cibele.»

Note:

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Note:

Salve, ragazzuoli.

Pensavate davvero che Cibele fosse Dietricha/Damian? Lo so, lo so, sarebbe stato interessante creare un'incarnazione divina per un fantasy, ma non da me. I miei personaggi sono terribilmente umani, perlomeno i miei protagonisti sventurati.

E per quanto riguarda Rasputin, beh, è un'altra storia. Di sicuro non sarebbe mai riuscito a "domare una Dea".

Ah, immagino vi stiate chiedendo che fine abbia fatto o cosa stia combinando. Beh, arriverà presto.

Se il capitolo vi è piaciuto, lasciatemi un commento o una stellina di supporto, mi raccomando.

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