Capitolo 13

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Verso le prime luci dell'alba, Dietricha era riuscita a raggiungere le rive del Breg. Il cuore malfermo, che le palpitava in un ritmo serrato, e il pensiero rivolto a sua madre. Era certa che si sarebbe preoccupata nel trovare il letto vuoto, ma non avrebbe potuto sapere che quel letto non fosse davvero il suo. E chissà come avrebbe potuto reagire alle parole di Rasputin; forse, si disse, non gli avrebbe creduto, o forse ancora sarebbe inorridita come lei.

Il nome di Damian le rimbombava nella testa, le martellava dietro la fronte e nelle orecchie come un fastidiosissimo tarlo. Avrebbe voluto sapere di più, scoprire qualcosa sulla sua morte o sulla rinascita che le era stata appena accennata; tuttavia non aveva modo di farlo e si crogiolava in quell'appellativo, Cibele, che sapeva essere stato ripetuto più e più volte in qualche strano vissuto di cui non ricordava niente.

Allora, immobile sul manto erboso, con la spada di Erdmann tra le braccia, non faceva che osservare il moto dell'acqua. Teneva le palpebre pigramente abbassate e le labbra strette, tese in una linea retta. Sembrava distante, lontana dal mondo, intoccabile.

E così apparve anche ad Adalric, non appena questi superò gli alberi e raggiunse la riva opposta del Berg. Un leggero affanno, la vide. Dapprima non disse nulla, ma aguzzo lo sguardo e tentò di metterla bene a fuoco. Poi, avvicinandosi a un passo liscio, corrugò appena la fronte e chiese: «Venite dalla Città?». Si chino per sciacquare le mani nel torrente e, con la coda dell'occhio, ebbe come l'impressione che si fosse riscossa dal suo torpore in un lieve sobbalzo.

«Parlate con me?»

Lui sorrise. «Vedete qualcun altro?»

«Sì, vengo da Donaueschingen.» Annuì e si strinse nelle spalle, facendo fremere le dita sulla stoffa leggera della camicia che spuntava dal corsetto. «Anche voi, immagino. Perché siete qui, nella Foresta Nera?»

«Potrei chiedervi la stessa cosa.» Storse appena la bocca e tornò a guardarla, scrollando le mani umide per poi passarsele sulle cosce. «È inusuale che una ragazza si avventuri da sola in un posto simile» disse. «Le tingitrici lo fanno spesso, ultimamente, ma sono sempre in gruppo e portano con loro grosse ceste di panni, che il nuovo Re esige siano tinti di rosso.»

Lei chinò la testa, ricordando il giorno in cui era stata additata come una strega su quelle stesse rive. Si chiese se fosse stato il momento del suo risveglio, della rinascita, della creazione di Cibele, e deglutì. «È vero, non sono una tingitrice» assentì.

«Quella spada è vostra?» chiese ancora, quasi divertito, tornando in piedi.

Dietricha spostò lo sguardo sulla lama e si umettò le labbra. Non riuscì a rispondere, sentendo una fitta attraversarle il petto. Avrebbe voluto fidarsi, ma non era certa di poterlo fare, perché quell'uomo era a tutti gli effetti uno sconosciuto. Così, nel dubbio, iniziò a tremare e serrò le dita sull'elsa.

Lui aggrottò le sopracciglia, mosse qualche passo verso destra e raggiunse uno stretto fatto di massi umidi, cui iniziò a saltellare come una rana. «Non muovetevi, vengo lì da voi.»

Sentendo quelle parole, lei sollevò lo sguardo e batté le palpebre un paio di volte. «Non ce n'è bisogno, tornate indietro» balbettò. Retrocesse sull'erba, scivolò di qualche centimetro, tuttavia non si ritrasse davvero e, quando lo vide di fronte a se, sentì un brivido scorrerle lungo la schiena. «Perché lo avete fatto?» chiese piano.

«Donaueschingen è in questa direzione, su questo lato del Berg, e io devo tornare indietro per raggiungere un amico» mormorò, sollevando le labbra verso l'alto. «Niente di personale o di preoccupante...» Poi si fermò, lasciò che la sua voce si assottigliasse lungo l'ultima parola pronunciata. Gli occhi sgranati, puntati sulla spada di Erdmann, e le sopracciglia tremanti, aggrottate. Chiese: «Dove l'avete trovata?». Non la guardò in viso, ma fu certo che stesse impallidendo.

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