Capitolo 33

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Da quando Dietricha era stata risucchiata dal Brigach, Adalrich pareva aver perso la voce. Camminava accanto a Erdmann in totale silenzio, risaliva il corso del fiume e lasciava che lo scrosciare dell'acqua gli riempisse le orecchie in un moto quasi inquietante.

I brividi lungo le braccia, i nervi tesi, rallentava il passo e, di tanto in tanto, si fermava. Poi, quando veniva ripreso, si giustificava con qualche frase di circostanza e tirava in ballo l'invisibilità. Sentiva sospirare Erdmann, gli vedeva scuotere la testa e sollevare il capo per cercare la posizione delle stelle; allora riprendeva la marcia, lo precedeva.

L'inquietudine nel petto, le narici larghe, l'aria che entrava e usciva densa dai suoi polmoni. Desiderava solo raggiungere la Valle dello Schwarza per accertarsi che Dietricha fosse ancora viva e che quella creatura non le avesse torto un capello; perché era certo che l'avesse condotta lì, era certo che fosse inutile continuare a scavare la terra bagnata del Brigach come aveva fatto Erdmann.

Quelli, per lui, erano stati puri momenti di delirio. E se solo si fermava a riflettere, se solo cercava di tornare indietro nel tempo per ricordarli, non poteva fare altro che fremere di terrore e rabbia. Impotente, vittima degli eventi, con le braccia tese lungo i fianchi, aveva provato ancora la sensazione di quel giorno lontano: l'abbandono.

«Adalric, dobbiamo aumentare il passo» disse Erdmann, riscuotendolo così dai suoi pensieri.

Lui batté le palpebre, sollevò lo sguardo da terra e sentì un rametto spezzarsi sotto la suola degli stivali. Lo guardò, poi cercò di metterlo a fuoco e trattenne il respiro. In silenzio, annuì e avanzò nella sua direzione, rendendosi conto di essere rimasto indietro per l'ennesima volta.

Ma fu allora che un fruscio arrivò alle loro orecchie, che li sorprese e li gelò tra gli alberi.

Erdmann fu il primo a voltarsi. I denti che stridevano tra loro e il volto contratto, con le palpebre sollevate e le sopracciglia folte, nere, che quasi si scontravano sulla sommità del naso. Non disse una parola, ma si lasciò attraversare da un lungo brivido e da quella terribile sensazione che a lungo lo aveva accompagnato.

Adalric, subito dopo di lui, si aggrappò all'elsa della spada e fu sul punto di sguainarla; tuttavia, quando il muso grigio del lupo che aveva affrontato nella cella a Donaueschingen spuntò tra gli arbusti, impallidì. S'immobilizzò e spalancò la bocca, udendo il suo ululato sinistro. «Erdmann, fuggi» mormorò. Gli parve di avere una strana sensazione di déjà-vu e si sentì come quel giorno sulle rive del Titisee.

Tuttavia lui non si mosse, disse: «No, questa volta non ti lascerò da solo».

«Non hai nemmeno la spada» obiettò a gran voce. Gli lanciò un'occhiata di sguincio e corrugò la fronte. «Restare qui sarebbe un suicidio. Vuoi farti ammazzare, forse?»

Scosse la testa. «Stanno cercando me. Sarebbe inutile se me la dessi a gambe.»

Il lupo, incurante dei loro discorsi, mosse dei passi in avanti. I denti esposti, bianchi e surreali, incastrati nella carne rosea delle gengive, ringhiò. Arricciò il naso, si rivolse dapprima ad Adalric, poi a Erdmann. E, smuovendo le foglie basse, scattò. Fece un balzo veloce nella sua direzione, un salto tale che paralizzò entrambi.

Adalric schiuse la bocca, la spalancò inorridito. Guardò Erdmann con il cuore in gola e poi sfoderò la spada. Gli occhi fuori dalle orbite, tentò di assalire la bestia con un colpo rivolto al costato, mentre ancora era in volo. «Muori, bastardo!» ruggì. Vide la lama penetrare nelle sue carni, scivolare tra una costola e l'altra, fino in fondo all'elsa, con difficoltà. Allora gli si lanciò addosso, lo spinse in terra, gli salì sopra. Cercò d'immobilizzarlo con tutto il suo peso, annaspando. Poi rigirò la spada, provò a sviscerarlo e fu certo di esserci riuscito quando, con cattiveria, ritirò l'arma.

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