Capitolo 21

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Da quando Rasputin aveva abbandonato quella cella per correre dietro il mantello dell'usurpatore d'argento, lui aveva iniziato a sentire la voce di Damian. Dapprima gli era parsa solo un'eco lontano, un ricordo, ma poi gli si era instillata a forza nella testa; ripetitiva, sofferente, arrabbiata, fino a diventare un vero tormento.

Così, con gli occhi fuori dalle orbite e il petto stretto in una dolorosa morsa, si era addossato al muro. Ansante, i polsi ancora legati, le ginocchia sollevate, aveva addirittura pregato di poter perdere l'udito, mentre le lacrime gli rigavano le guance.

Dopo ore di accuse, si lasciò gelare dal senso di colpa. Un groppo in gola, il suo strano respiro sul collo. Fremette, si piegò appena in avanti e singhiozzò a denti stretti un: «Mi dispiace».

Fu allora che la pietra alle sue spalle prese a deformarsi con un suono sinistro e cercò d'inglobarlo attraverso lunghe braccia fatte di artigli.

Lui sollevò la testa, mancò un battito e rotolò al suolo. Disteso su un fiancò, con la fronte corrugata e il respiro corto, spalancò la bocca per emettere un gemito basso, di sorpresa.

«Erdmann.»

Si voltò appena, facendo correre lo sguardo verso sinistra e strusciando la guancia contro il pavimento freddo. Poi lo vide: al centro della cella, con indosso gli stessi panni laceri con cui lo avevano condotto al patibolo; le gambe sfregiate, il sangue che gli sporcava le guance e gli occhi grandi, azzurri, fissi su di lui. «Non è possibile» balbettò. «Damian è morto.»

Ignorò le sue parole e si piegò appena in avanti. In bilico sui calcagni, lo guardò in faccia e sussurrò: «Perché mi hai abbandonato?».

Quella voce, la stessa voce che lo aveva tormentato per ore e che lo aveva accompagnato per un'intera vita, gli vomitò addosso l'unica domanda che non avrebbe voluto mai sentirsi porre. Perciò indurì i muscoli del viso, trattenne il respiro, fece stridere i denti tra loro e lo guardò in silenzio, sentendogli dire:

«Mi fidavo di te, fratello».

Rabbrividì, deglutì a vuoto e puntò una spalla contro il pavimento. Provò a tirarsi a sedere, ma riuscì solo a strisciare come un verme fino a raggiungere i suoi piedi freddi. Le sopracciglia aggrottate, ripeté: «Damian è morto». Il tono stridente, teso, disse: «Tu non sei reale, non sei lui». Gli vide trattenere una risata, accennare un sorriso sghembo, piegare le labbra verso l'alto, con spavalderia.

«Sei un uomo difficile, Erdmann. Preferisci convincerti che io non sia Damian, piuttosto che affrontare le tue colpe.»

«Se fossi davvero lui, mi avresti perdonato» sputò. Premette la fronte contro il suolo e puntò bene le ginocchia, spingendosi ritto sulle stesse e ancora dopo in piedi. Lo fissò, storse il naso e lo vide sollevarsi lentamente, con le sopracciglia sollevate.

Un suono divertito, chiese: «Pensi davvero che basti chiedere scusa per essere perdonato dopo quello che hai fatto?».

«Non è da te che devo essere perdonato, mostro» scandì rabbioso. Serrò le mani in due pugni ben chiusi dietro la schiena e restrinse lo sguardo. Il respiro corto, il cuore che batteva forte, come un tamburo, e gli rimbombava nelle orecchie. «Sei solo un'allucinazione, qualcosa di strano con cui Rasputin vuole condurmi alla pazzia.»

Lui rise, si portò una mano di fronte alla bocca e mosse un passo indietro. «È questo che sembro? Un mostro, qualcosa di strano?»

Erdmann digrignò i denti, mostrandoli come un animale in gabbia. «Pensi che non sappia riconoscere mio fratello?» ringhiò.

Il suo volto mutò all'improvviso, divenne una maschera contratta dal dolore. «Mi ferisci» gemette. Si mosse in avanti, raggiungendolo a un palmo dal naso. «Continui a ferirmi ancora e ancora» disse piano, quasi scandì. Il respiro corto, agitato, mosso da una strana urgenza.

«Non essere ridicolo» sibilò, ritirandosi nelle spalle.

Emise un singhiozzo, si portò le mani di fronte le labbra e mugolò un: «Aiutami, Erdmann». Non aggiunse altro, batté appena le palpebre e poi le spalancò, lasciando che da queste fluisse via un urlo straziante.

Quasi non se ne rese conto, mormorò il suo nome: «Damian...». Vide il collo segnarsi di una linea dritta, scarlatta, e poi la veste cenciosa sporcarsi di sangue. Neanche il tempo di sollevare lo sguardo, che un tonfo gli arrivò alle orecchie. Schiuse la bocca, fece per dire qualcosa, ma ciò che gli si presentò davanti fu un corpo intero, ancora eretto e privo di testa. Strozzò un urlo, sentì qualcosa posarsi sulla punta degli stivali e chinò di poco il mento. Solo allora se ne rese conto: un cranio senza pelle, mangiato dai vermi, aveva smesso di rotolare per fermarsi addosso a lui.

«Aiutami, Erdmann» esalò, vomitando parassiti dai bulbi vuoti, mentre il corpo cadeva in terra e delle urla sinistre prendevano a levarsi nella cella.

«Aiutami, Erdmann» esalò, vomitando parassiti dai bulbi vuoti, mentre il corpo cadeva in terra e delle urla sinistre prendevano a levarsi nella cella

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Note:

Salve a tutti.

Questa è la prima volta che provo a descrivere qualcosa di horror, credo. Dico "credo", perché ricordo vagamente una OS di qualche anno fa, ma non penso sia paragonabile con questo capitolo, perché si scopriva in fine che era un trollino di alcuni tali. Non ricordo bene, in effetti, dopotutto l'avevo scritta per un contest di un gruppo e mi sono resa conto di averla ancora pubblicata da qualche parte solo qualche giorno fa. Ah, che bello il cervello che invecchia!

Insomma, come vi sembra la situazione in cui si trova Erdmann? Sì, se ve lo state chiedendo è proprio colpa del sigillo che gli ha impresso Rasputin prima di uscire dalla cella. Lui ne ha il sentore, ma non ha idea di cosa sia successo dietro il suo collo, perciò si può dire che abbia anche dimenticato quelle parole ringhiate tanto amabilmente.

Mi fa tenerezza.

Che dire, se il capitolo vi è piaciuto o avete qualche commento da fare, scrivetemi due righe, mi farebbe molto piacere sapere cosa ne pensate. E una stellina di supporto sarebbe gradita. A presto.

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