Capitolo 31 - Jack (capitolo inedito)

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Non so esattamente come passano i giorni consecutivi. A tratti nel buio più totale, a tratti con la rabbia struggente, a tratti con pianti convulsi davanti a una bottiglia di whiskey e a tratti con la sola voglia di voler togliermi la vita con un cappio al collo.
Non c'è più ragione di vivere quando un figlio ti viene strappato via all'improvviso, senza aver avuto il tempo di poter risolvere la situazione e senza aver avuto il tempo di provare a salvarlo.
È straziante, ingiusto, terrificante, il momento che ne segue. È difficile poter continuare con la stessa vita, a fare le stesse cose di prima, a sorridere, mangiare, bere, dormire, quando manca la cosa più importante che ci spinge ad andare avanti.
Leo non c'è più. Eleanor non c'è più. E questa casa vuota, per metà distrutta dai miei attacchi di ira, sta diventando la mia bara.
Bevo. Non faccio che bere. Dalla mattina alla sera. Da quei pochi bicchieri sporchi sparsi per la casa che non penso neanche di risciacquare. Tutti gli altri li ho distrutti, insieme alle bottiglie vuote. Poi collasso, a volte sul pavimento, a volte sul divano, a volte dopo una crisi di pianto e pesanti imprecazioni, tra i vestiti e le cose di Leo che ho accuratamente sistemato sul letto.
Mi sento ormai inutile, una persona orrenda che non merita nulla, se non il peggio e lo schifo da questa miserabile vita.

Il campanello suona insistentemente, alternato a colpi di nocche sulla porta.
Mi alzo con riluttanza e mi trascino ad aprire, trovandomi faccia a faccia con un esasperato Walter.
«Ti sto chiamando da un'ora», entra in casa e rimane di sasso nel vedere tutto il casino che c'è.

«Non so dove ho messo il telefono», rispondo con una voce che non sembra più la mia. È roca, strozzata, invecchiata...

«C'è il funerale, J».

«Lo so», mi massaggio le tempie e crollo sul divano ormai ricoperto da macchie di alcol e bottiglie vuote.

«E non pensi che dovresti essere presente?» si piazza davanti a me, con le mani sui fianchi.

«Per farmi cacciare via e regalare a tutti voi presenti uno schifoso spettacolino?»

«Nessuno ti caccerà via».

«Il vecchio Kennedy lo farà di sicuro, di nuovo». Mi ha praticamente proibito di avvicinarmi a Eleanor. Mi ha accollato tutte le colpe di quello che è accaduto e lo stesso lo pensa anche mia moglie, dato che non si è fatta viva dopo quel maledetto giorno.

«Oggi non lo farà. Era anche tuo figlio, J. Non potrà cacciarti via. Hai tutto il diritto di essere lì».

Resto in silenzio e lascio che le sue parole mi convincano ad alzarmi e uscire fuori da questa casa che da quindici giorni mi sta letteralmente soffocando. Ma il punto è che non voglio uscire, non voglio reagire. Non ne ho le forze. Voglio solo sprofondare nell'alcol e non pensare più a quel giorno, al sangue di mio figlio sulle mani e sulla mia maglietta, ai suoi occhi innocenti e spenti...
E poi c'è Eleanor che non mi rivolge la parola, che non piange con me e che non si chiude nel dolore insieme a me.

«Lei come sta?» chiedo con un filo di voce.

«L'hanno dimessa. Hanno aspettato che si riprendesse per organizzare il funerale».

«E...» deglutisco.

«La gravidanza procede. Non c'è più pericolo».

       Annuisco e i miei occhi si inumidiscono. È un sollievo sapere che Eleanor ha accettato questo bambino e che si sia fatta curare per non perderlo. Non avrei retto un aborto voluto da parte sua e sono stato malissimo quando ho saputo del suo ricovero e del rischio che c'era. La perdita di Leo l'ha distrutta fisicamente e mentalmente, ma quell'esserino nel suo grembo deve essere un gran guerriero per riprendersi così in fretta.

       «Dai, J. Reagisci, solo per oggi. A Eleanor farebbe piacere vederti», insiste Walter.

      E accetto. Mi lascio accompagnare al funerale, nonostante il mio aspetto trasandato e distrutto. Non mi rado da due settimane e credo di aver indossato anche una delle tante magliette sporche di alcol che erano sparse per la casa, ma mi importa poco. Il mio solo pensiero adesso è quello di dare l'ultimo saluto a mio figlio e incrociare gli occhi di Eleanor. Anche solo un suo sguardo mi basta, purché capisca che l'aspetto, che ho bisogno di lei per andare avanti, per smettere di bere e ritrovare la strada che ho perso.

      L'auto di Walter si ferma appena fuori al cimitero e mi batte una mano sulla spalla per darmi un po' di coraggio. Già da lontano vedo alcune persone radunate intorno ad una piccola bara bianca e mi si spezza anche quell'unico pezzettino di cuore che mi era rimasto.

      Scendiamo dall'auto e lascio che Walter si avvii per primo, e io non me la sento affatto di raggiungerlo. Me ne resto in disparte, con le mani nelle tasche dei jeans, tra le lapidi nell'immenso spazio verde che oggi è decisamente cupo, e guardo da lontano la scena con una stretta al cuore e allo stomaco.

     Non doveva accadere. Tutto questo non doveva accadere, cristo santo! Era solo un bambino innocente e indifeso! Perché non c'ero io al suo posto? Perché non ho pagato io, con la mia vita, al posto di quella di mio figlio? Sono io quello che pecca, che sbaglia, che odia, che bestemmia... non lui. Non un bambino. Non il mio bambino.

Quando abbassano la piccola bara nella buca di terra fresca e umida, comincia a piovere. Eleanor si volta, senza avere il coraggio di guardare la scena, e singhiozza. In silenzio.
Sua madre le si avvicina per coprirla con un ombrello e le passa un fazzoletto. La pioggia fitta sfoca un po' la mia vista, ma riesco a vedere perfettamente il momento in cui gli occhi di Eleanor si alzano su di me.

Ed è come ricevere un pugno nello stomaco perché sono quaggiù, ma vorrei essere al suo fianco. Portarla via. Stringerla. Baciarle via le lacrime. Dirle che senza di lei sto sprofondando e chiederle perdono, ancora una volta.

Ci fissiamo per un tempo indefinito. E per tutto il tempo prego che senta il mio bisogno di lei, ma sua madre se ne accorge e preferisce portarla via. E anche il vecchio Kennedy mi vede mentre tutti gli altri si stanno allontanando per rifugiarsi nelle auto, e per un momento penso che abbia in mente di raggiungermi per ripetermi di sparire una volta per tutte. Ma non lo fa. Blocca il tizio che sta ricoprendo la bara di terra e gli chiede di allontanarsi per qualche minuto. Poi mi rivolge di nuovo lo sguardo e capisco cosa ha appena fatto: mi ha regalato gli ultimi minuti con mio figlio.
Lo ringrazio con un cenno del capo e va via chino sotto il suo ombrello nero, mentre io, tutto zuppo di pioggia, corro verso mio figlio.

Scoppio a piangere e crollo sulle ginocchia quando vedo la sua foto sorridente incorniciata sulla lapide. Le mie mani si stringono nella terra ormai melmosa e grido dalla rabbia, perché adesso che sto realizzando che mio figlio se ne è andato sul serio, c'è solo una cosa che posso fare. L'unica che sono sempre stato in grado di fare. Vendicarmi.

Rapita - parte 4 Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora