Capitolo 33 - Jack (capitolo inedito)

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Quattro giorni dopo...

Il trambusto all'esterno dell'aeroporto mi arriva alle orecchie come un rumore lontano e ovattato.
Il caffè che ho ordinato mezz'ora fa, giace solitario sul piccolo tavolo del bar, e si è ormai raffreddato senza neanche averlo assaggiato.

Sono agitato.

Non manca molto alla chiusura del gate, e mi viene il voltastomaco al pensiero di dover imbarcarmi da solo, senza di lei. Senza Eleanor.

E adesso sono più che convinto che non verrà, perché non è una ritardataria, soprattutto quando si tratta di voli e partenze ha un'organizzazione e una puntualità che mi ha sempre spaventato. Conoscendola, sarebbe stata già qui da un pezzo.
Ma in fondo, il dubbio rintanato nei meandri della mia testa c'è sempre stato. Eleanor non poteva perdonarmi per sempre. Ha un limite anche lei e io l'ho abbondantemente superato. E forse ha contribuito anche quello che ho fatto. Di sicuro avrà sentito la notizia ai telegiornali e scaltra com'è, non ci avrà messo molto a capire che sono stato io. Poi, l'ho vista quando è tornata a casa un mese fa. Stavo rincasando proprio mentre lei stava scappando via di corsa. Pronunciai anche il suo nome, sottovoce però. Non ero sicuro di volermi far vedere da lei, non dopo il piano che avevo già messo in atto. Lei doveva starne fuori, a tutti i costi. E quando entrai in casa, mi resi conto del perché stava letteralmente scappando via. Le armi erano in bella vista, i miei vestiti erano sparsi dappertutto insieme alle bottiglie di alcol. Mozziconi di sigaretta gettati qua e là tra gli scarti del cibo da asporto. E le cose di Leo, sistemate sul letto quasi in modo maniacale.
Quello era il mio santuario. La stanza che usavo per covare il rancore e la rabbia, e poi l'ho fatto. Senza ripensamenti. Senza sensi di colpi. Ho ucciso tre persone. Quelle che avevano tolto la vita a mio figlio.

Impiegai quattro mesi per scovarli tutti e tre, e nel frattempo mi allenavo a più non posso in una palestra diroccata fuori città. Avevo bisogno di mettere su massa, rafforzare i muscoli e i riflessi per essere pronti a tutto. E poi, in quella palestra si allenavano dei tizi che mi interessavano. Ovvero, quelli che hanno incriminato per l'omicidio di Hernandez e dei suoi sicari. Beh, la vendetta e la collera camminano a braccetto, e non c'è peggior alleato di queste due emozioni completamente distruttive. E così, per altri due mesi li tenni d'occhio tutti, giorno e notte, fin quando non mi si presentò l'occasione di rapire quel bastardo di Antony Hernandez. Lo portai a casa mia. Lo legai ad una sedia dopo aver coperto il pavimento con una tela cerata. E lo massacrai di botte, lo torturai fino allo stremo, davanti alle foto di mio figlio. L'ultimo volto che vide prima di morire.

E urlava lo stronzo. Urlava un sacco. Implorava perdono. Mi ripeteva scuse che non volevo affatto accettare. Mi disse che non aveva intenzione di far morire una creatura innocente. Lui stesso non aveva mai toccato un bambino in vita sua. Ma io gli risposi semplicemente che doveva ritenersi fortunato a morire lui, legato e torturato ad una sedia... e non suo figlio. E gli staccai le dita, una ad una, con un seghetto, perché con quelle aveva preso mio figlio e lo aveva portato via. Poi gli tagliai la lingua con un paio di grosse forbici, perché con quella aveva dato l'ordine ai suoi sicari di sparare. E poi, gli asportai gli occhi con un bisturi, perché con quelli aveva visto tutta la scena senza dare l'ordine ai suoi di smetterla.

E infine, beccai i suoi due sicari. Forza fisica ne avevo messa in abbondanza ed è stato semplice stenderli senza fare troppo casino, per poi impiccarli e scaricare tre caricatori pieni di pallottole calibro nove sul loro corpo di merda.

Adesso non mi pento. Non mi pento di nulla. Lo rifarei altre mille volte e vorrei solo poter aver l'occasione di dire tutto a Eleanor. Sento solamente il dovere di confessarmi con lei.

Rapita - parte 4 Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora